Digressioni sulla Civiltà (i testi)

 

(Mauro Tonino)

Venti di guerra

 

Passò ancora qualche minuto e lontano all’imboccatura della baia apparve Marino, Filippo rilevò che le sue bracciate erano vigorose come all’andata. Arrivato sotto bordo, come un prestigiatore che fa uscire un coniglio dal cilindro, estrasse una magnifica stella marina e la porse in visione a Filippo, inginocchiato a poppa. Il ragazzo se la rimirò tra le mani per alcuni secondi, poi Marino la chiese indietro, ricevutala, la lasciò inabissarsi delicatamente in acqua.
“Perché l’hai gettata via?” chiese stupito Filippo.
“Non l’ho gettata via, l’ho riposta in acqua, gli animali si possono ammirare, e credo che abbiamo già creato sufficiente disturbo a questa splendida stella marina”.
“Gli animali e le piante si uccidono o si estirpano non per piacere, ma per bisogno, per nutrirsi o per difendersi”.
“Sì, hai ragione” dovette ammettere Filippo dopo una breve riflessione.
Miglio dopo miglio, quel viaggio per mare stava diventando per Filippo un affascinante percorso di conoscenza, sia dei propri mezzi, che della vera natura del nonno. Il ragazzo pose la scaletta fuori bordo per agevolare la risalita. Marino, grondante, salì sul ponte e iniziò ad asciugarsi. Filippo silente lo osservava, notando che nonostante l’età, l’anziano istriano conservava un fisico di tutto rispetto, asciutto, senza un filo di grasso e le nervature tutte evidenti, trasmetteva la sensazione di possedere ancora forza.
“Dove eravamo rimasti?” disse Marino, mentre stava asciugandosi i capelli.
“All’8 settembre 1943!” rispose pronto Filippo.
“Noto che stai attento!”
disse sorridendo, ma dopo essersi messo l’asciugamano sulle spalle, si sedette sul pulpito.
A quel punto il sorriso scomparve per lasciar spazio di nuovo al racconto.
“Il simbolo della nostra terra è una capretta, un’immagine quasi emblematica, e profetica della fine!”
“Che cosa vuoi dire?” chiese Filippo.
“Che come lupi famelici, in un diabolico gioco di tutti contro tutti, titini, tedeschi, cetnici e ustascia, si avventarono su quella capretta inerme, per smembrarla, dilaniarla e ucciderla. Pochi giorni dopo l’8 settembre, come le orde barbariche ai tempi di Roma, i partigiani scesero in Istria, e, in quei terribili giorni provammo l’assaggio di quello che poi con precisione scientifica fecero in seguito gli uomini del Maresciallo jugoslavo quando presero definitivo possesso della nostra terra. Il nostro esercito era allo sbando, il Re lontano e in fuga verso il sud dell’Italia. Eravamo alla mercé di tutti, difesi solo da quelli che storica- mente passarono per cattivi, ma che in quella situazione difesero l’italianità in Istria”.
“Perché cattivi? E chi erano questi?” sovrappose con foga le domande Filippo.
“In una guerra è difficile classificare precisamente i buoni o i cattivi, e di solito chi vince colloca i perdenti tra i cattivi”
Dopo una pausa proseguì:
“Erano soldati italiani, i ragazzi della Decima Mas, che con coraggio cercarono di difendere l’italianità e la nostra terra dall’invasione, ma era come tentare di fermare il diluvio universale. In quei pochi mesi accadde di tutto, era iniziato il tempo del terrore, e con esso i primi massicci “infoibamenti””.
“Infoibamenti? E cioè?” chiese serio il ragazzo.
“Ancora oggi si parla poco di queste cose, quasi che le vicende della nostra terra, dovessero rimanere seppellite per sempre nell’oblio, cancellate, come mai esistite. Quando dopo pochi mesi i tedeschi si ripresero con poca fatica l’Istria, era autunno, e la popolazione li accolse quasi come liberatori, ma ci sbagliammo, anche loro avevano in progetto di annettersi la nostra terra nel “Adriatisches Kunsterland”, così a quel punto fummo abbandonati da Dio e dagli uomini al nostro destino”.

Scese il silenzio, Marino doveva scegliere le giuste parole per illustrare al ragazzo i fatti storici più drammatici.
Guardò negli occhi il nipote e riprese la narrazione.
“Filippo, se tu prendessi ora un vocabolario in mano e cercassi la parola “foiba”, troveresti questa dizione “cavità carsica”, ma le foibe furono il sepolcro per tantissimi di noi”.
Marino si alzò in piedi a scrutare l’orizzonte e continuò osservando
“Sarà il caso di procedere con ordine, – poi abbassando gli occhi disse – purtroppo ci ritorneremo più avanti su questo”.
Prese una bottiglia di acqua e bevve.
Dopo essersi asciugato con il palmo della mano, proseguì.
Anche Nazario era in mezzo al caos, e fece quello che tantissimi militari allo sbando fecero. Gettò la divisa e ritornò a casa. Lo vidi arrivare a piedi in abiti borghesi, con una striminzita valigia, non era il guerriero con la divisa fiammante che ricordavo, ma averlo vicino a me era come toccare il cielo con un dito, papà accanto a me! Nonostante l’Europa in quei momenti fosse a ferro e fuoco, per me quel periodo fu bellissimo, ma come tutte le cose belle, anche questa durò poco. Vedevo però mio padre sempre più preoccupato, e ne aveva ben ragione. Infatti, un giorno salì fin su da noi un’auto, che si fermò proprio davanti a casa nostra. Quell’auto, come quella che accompagnò la mamma nell’ultimo viaggio, non era portatrice di buone notizie. Scesero tre uomini in divisa, quello che dal ruolo pareva il capo, era per un ragazzino come me, un essere enorme, forse alto quasi due metri e vestito di nero. Ricordo che sulla divisa e sulla visiera campeggiavano due teschi, che in controluce luccicavano come brillanti. Quell’omone aveva uno sguardo che incuteva paura, e, l’aspetto, come potrai capire tra poco, confermava pure la sua natura. Cercavano papà, lui uscì in cortile, e vedendoli sì accigliò. Il capo del gruppo parlò, con tono secco, duro “ Nazario, rimettiti la divisa! ”. Nazario, con tono gentile ma deciso, argomentò dicendo che non avrebbe più rivestito la divisa, che ormai era tutto finito, e che voleva rimanere a casa con la sua famiglia. Le miti parole di mio padre sortirono un effetto contrario rispetto a quello sperato. Il capo s’irrigidì e alzando la voce disse “Sei un traditore!”, poi le sue parole resero ancor più drammatica la situazione “Se resterai qui, comunque sarai preso dai tedeschi” disse glaciale e per dare maggiore enfasi all’ordine terminò serio “ Se non rivesti la divisa, ti ammazzo qui, sul muro del tugurio di Candusio, davanti a tuo figlio” indicando il muro a secco dietro di loro. Io ero terrorizzato, in quel preciso istante percepivo la tragicità della guerra. Iniziai a piangere aggrappandomi ai pantaloni di mio padre. Quell’uomo imponente avanzò una borsa verso papà, lui la prese. Tutti entrammo nell’angusta cucina, mentre Nazario salì al piano superiore per vestirsi. “Lei”, fino a quel momento era rimasta in silenzio, quasi a rendersi invisibile, dall’angolo della cucina mi guardò e disse “ Marino, restemo de novo da soli.”, ma il suo tono questa volta non trasudava odio, ma preoccupazione. Io mi rivolsi al capo chiedendo “Lo portate a Cittanova?”, ero ansioso di sapere il destino di mio padre.
“Non lo so, non ci sono ancora direttive.” rispose con aria marziale. Nazario poco dopo scese vestito in divisa, i tre lo presero e uscirono, io lo seguii, poi al momento della partenza, mio padre mi baciò. Io non smettevo di piangere. Papà, come per giustificarsi, mi disse con infinita dolcezza
“ Pensavo che saremmo rimasti finalmente insieme.”

 

30 secondi di pausa

(Dallagiacoma)

30 secondi di pausa
Qui interviene Roberto Maestri con La pelle di Malaparte

 

(Roberto Maestri)

 

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La pelle

Curzio Malaparte,  Edizioni Vallecchi

«L’esercito americano» disse il Principe di Candia «ha lo stesso odore dolce e tiepido delle donne bionde».
«Very kind of you» disse il Colonnello Jack Hamilton.
«È uno splendido esercito. È un onore e un piacere, per noi, essere stati vinti da un esercito simile».
«Siete davvero molto gentile» disse jack sorridendo.
«Siete sbarcati in Italia con molta cortesia» disse il Marchese Antonino Nunziante «prima di entrare in casa nostra avete bussato alla porta, come fanno tutte le persone bene educate. Se non aveste bussato, non vi avremmo aperto».
«A dire il vero, abbiamo bussato un po’ troppo forte» disse Jack «così forte che tutta la casa è crollata».
«Questo non è che un trascurabile particolare» disse il Principe di Candia «l’importante è che abbiate bussato. Spero che non vi lagnerete del modo col quale vi abbiamo accolti».
«Non avremmo potuto desiderare ospiti più cortesi» disse jack «non ci rimane che chiedervi scusa di aver vinto la guerra».
«Sono certo che finirete per chiederci scusa» disse il Principe di Candia con quella sua aria innocente e ironica di vecchio signore napoletano.
«Non siamo i soli a dovervi chiedere scusa» disse jack «anche gli inglesi hanno vinto la guerra: ma non vi chiederanno mai scusa».
«Se gli inglesi» disse il Barone Romano Avezzana, che era stato Ambasciatore a Parigi e a Washington ed era rimasto fedele alle grandi tradizioni della diplomazia europea «si aspettano che noi chiediamo scusa a loro di aver perso la guerra, si sbagliano. La politica italiana è basata sul principio fondamentale che c’è sempre qualcun altro che perde la guerra per conto dell’Italia».
«Sarei curioso di sapere» disse Jack ridendo «chi ha perso, questa volta, la guerra per conto vostro».
«I russi, naturalmente» rispose il Principe di Candia.
«I russi?» esclamò Jack profondamente meravigliato. «E perché?»
«Qualche giorno fa» rispose il Principe di Candia «ero a pranzo dal Conte Sforza. C’era anche il Vice Commissario sovietico per gli Esteri, Wishinski. A un certo punto Wishinski raccontò di aver domandato a un ragazzo napoletano se sapeva chi avrebbe vinto la guerra».
«Gli inglesi e gli italiani», aveva risposto il ragazzo. «E perché?» «Perché gli inglesi sono cugini degli americani, e gli italiani son cugini dei francesi». «E dei russi, che ne pensi? Credi che vinceranno la guerra anche loro?» aveva domandato Wishinski al ragazzo. «Eh no, i russi la perderanno» aveva risposto il ragazzo. «E perché?» «Perché i russi, poveretti, son cugini dei tedeschi».

 

(Dallagiacoma)
30 secondi di pausa

 

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6 risposte a “Digressioni sulla Civiltà (i testi)”

  1. Da Facebook:

    Suchert Daniel Di Schuler

    La montagna è una cattedrale.
    Una cattedrale gotica, che porta il cielo in terra ed innalza l’uomo ed i suoi pensieri al cielo.

    Una via crucis laica,
    è quel che ha organizzato Giuliano. Un’operazione tanto necessaria quanto contraria allo spirito dei tempi: nell’età del multi-tasking, dell’intrattenimento continuo, del rifiuto della riflessione mascherato da fuga dalla noia, condividere testi come “nuclei di pensiero” quindi mettere ognuno – tutti nella condizione di dovervi meditare sopra. Ognuno perché di ognuno è la fatica della salita. Tutti perché collettiva, comune (e anche questo quanto è opposto alla ferocia imperante dell’individualismo di massa) è la volontà di portare a termine il cammino. E, come in una via cruscis, c’è anche il sacro. Quello che ci scopriamo dentro: quello che avvertiamo ineffabile, proprio in cima ai monti o in mezzo al mare, al confine tra noi e l’immenso; tra noi e l’eterno. Una passeggiata in montagna e qualche poesia. Un happening e un momento di Resistenza.

  2. Commentare…difficile qui da te, caro amico, lasciare un commento. I tuoi pensieri, le tue poesie mi lasciano, mi regalano delle sensazioni che sono un po’ come i sapori, non riesci a descriverli ma li ricordi a lungo e ti fanno sentire a casa oppure viaggiare con il pensiero.
    Spero tanto, un giorno, di poter passeggiare e condividere pensieri insieme.
    Un abbraccio.
    Mìgola

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