Digressioni sulla Civiltà (i testi)

(Mauro Tonino)

 

 

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Il rastrellamento

 

Marino con aria stanca riprese la narrazione dal punto esatto, dove aveva interrotto. Il gracchiare dell’altoparlante scandiva l’ordine perentorio per tutti gli uomini di “consegnarsi immediatamente ai tedeschi e assembrarsi davanti alla chiesa”, mentre donne e bambini di “rimanere chiusi in casa”.
Nazario usci dal cespuglio e si diresse verso la chiesa. Io, d’importante a questo mondo, avevo solo lui, così lo seguii. Davanti alla chiesa erano state già radunate quaranta o cinquanta persone, papà fu messo insieme con loro. Sopra di loro, a ogni finestra della sacrestia c’era un soldato tedesco armato che controllava la piazza. Fui allontanato contro la mia volontà, non volevo abbandonare Nazario, così senza essere notato mi buttai giù nel fosso, proprio dietro la casa di Candusio, pronto a correre verso mio padre qualora fosse stato preso. Io stavo accovacciato nel fosso, con la sola punta del naso fuori, seminascosto tra l’erba, da lì potevo osservare tutta la scena, la distanza che mi separava dall’area teatro dei fatti che ora andrò a narrare, era circa cinquanta metri. In mezzo a tutti quegli uomini lo squadrista dirigeva con piglio autoritario tutte le operazioni. Quell’uomo, ora era stato assurto al ruolo di supremo giudice per dispensare vita o morte a persone che aveva visto nascere, crescere, invecchiare, e delle quali, in un paese piccolo come Villanova, conosceva tutto. Dal fosso, potevo sentire distintamente i colloqui tra le sventurate vittime e i carnefici. Quando mio padre venne scartato, tirai un sospiro di sollievo, ma rimasi accovacciato immobile nel fosso, attento a quanto accadeva. La scelta degli uomini da sacrificare spettò al nostro compaesano, operazione che effettuò con puntiglio e diligenza. Doveva scegliere diciannove martiri, e così fece. Distinzioni di età, di vissuto, di ceto, non valsero a nulla. Il fato, seguendo un misterioso disegno, aveva già scelto, in tal contesto pure un giovane militare appena giunto in licenza a casa, incontrò il destino lontano dal fronte, proprio nella terra che gli aveva dato i natali, e lì, ancora con la divisa addosso, fu raggruppato come un agnello sacrificale, agli altri diciotto martiri. A un certo punto si rivolse verso Elio, uno dei tre fratelli di “Lei”, dicendogli “ Fiozzo mio se in tre, uno dei voi tre devi andar! ”
Elio era poco più che ragazzo, e a quella sentenza di morte rispose “: Santolo mi no iero mai partigian! ” Un duro “Rauss!” dell’interprete tedesco spense le tenui speranze del giovane. Lo portarono dietro la chiesa, e lì iniziò la mattanza. Li fucilavano tre per volta. Sentivo un tedesco urlare “ avanti, avanti! ” e poi i colpi. Il mitra tedesco, appoggiato su le assi del portone ormai scardinato e dissestato, vomitava implacabile terrore e morte. Un compaesano, credo fosse Pio, cercò di fuggire in mezzo ai meleti ma loro, freddi e spietati, lo mitragliarono alla schiena, quasi come in una caccia alla lepre. Tutti quegli uomini trovarono la morte lì, su quel prato dietro la chiesa. Anche il nostro vicino di casa cadde insieme agli altri compaesani. Gli angeli della morte, non paghi, poiché nessuno doveva sopravvivere, finirono tutti a uno a uno con un colpo di pistola alla testa. Ricordo ancora l’immagine di quella pistola luccicante tra le mani del tedesco, e al botto di ogni colpo sparato, io sobbalzavo cercando di appiattirmi sempre più nel fosso. Conclusa la mattanza, i soldati salirono sui camion e se ne andarono via. Il quadro era desolante, dal mio nascondiglio immaginavo quegli uomini che fino a pochi attimi prima erano persone vitali, allegre, nel pieno della vita, ora il soffio implacabile e malvagio della morte le aveva portate via per sempre. C’erano solo corpi inanimati, quei poveri compaesani vittime innocenti di quella follia collettiva che assume il nome di guerra, e che io conoscevo uno per uno, con loro ci avevo parlato, scherzato, ora erano lì immobili. Tutto divenne immobile in quella quiete mortale. Solo dopo mezzora, dopo essersi accertate che i soldati non c’erano più, timidamente le donne iniziarono a uscire dalle case. E di lì a poco i pianti e le urla di disperazione saturarono l’ambiente, come lugubri e funerei canti accompagnatori delle anime di quegli sventurati verso ultimo viaggio. Uscirono poi anche gli uomini sopravvissuti, tutti davanti a quei poveri corpi, immobili e silenti a guardare quelle membra martoriate, icone e immagini della morte che li aveva appena lambiti, ma alla fine lasciati in vita a testimoniare lo scempio perpetrato contro civili inermi. L’umana pietas prese il sopravvento, così gli uomini superstiti presero a scavare per dare una minima sepoltura agli amici, parenti, vicini di casa. C’era poca terra, quasi che quel luogo non volesse ricevere il sangue degli innocenti. Dovettero allora ricorrere all’esplosivo di mina per sventrare le rocce e creare un giaciglio nella terra per quei diciannove figli. Ricordo ancora i corpi avvolti in un lenzuolo, ultimo sudario prima di esser sotterrati e un foglio di carta appuntato sopra con il nome inciso. Conclusa quella modesta cerimonia funebre, mio padre mi prese in braccio e mi riportò a casa. Paradossalmente, nonostante la tragicità del momento io ero contento, felice del fatto che mio padre si era salvato, ma alla luce di quello che accadde poi, gli avrei augurato di diventare il ventesimo martire, per non patire le pene dell’inferno in terra, viste le torture e sofferenze perpetrate poi sul suo povero corpo per giorni e giorni dagli implacabili carnefici.

 

(Dallagiacoma)

30 secondi di pausa e mi accompagna il didgeridoo

 

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(Diaolin)

pöra mòrt…

pöra mòrt

la töl dré tut le mesèrie
e ogni ratàra ‘n te ‘l prosàch
dele volte fòrsi ‘l par la te tampìnia
dessiguàl, da lumaciàra, strozegàndose
dré a i àrfi de le gènt, a bòtaciuch,
pöra mòrt

la còn törse dré qoei bòni
come qoei che i ghe fa ‘l vèrs
no la lédra ‘l camp da ‘l erba
la ‘mpienìss ‘l benèl de àneme
e dele volte resta ‘n bùss
pöra mòrt

vorìa dirghe: làghei chi
tuti qoéi che i fa del mal
che ghe rèstia ‘l desideri
de ruàrla la sò storia
senza che ‘l suzédia mai

 

povera morte

povera morte | si porta dietro tutte le miserie | e ogni carabattola nello zaino | alle volte sembra quasi che ti insegua | mano a mano, come lumaca, trascinandosi | dietro il respiro della gente, casualmente, | povera morte | deve portarsi dietro quelli buoni | come quelli che la canzonano | non ripulisce il campo dall’erba | lei riempie il cesto di anime | e alle volte lascia un vuoto | povera morte | vorrei dirle: lasciali qui | tutti quelli che fanno del male | ché resti loro il desiderio | di finirla, quella storia, | senza che accada mai

(Dallagiacoma)

 

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6 risposte a “Digressioni sulla Civiltà (i testi)”

  1. Da Facebook:

    Suchert Daniel Di Schuler

    La montagna è una cattedrale.
    Una cattedrale gotica, che porta il cielo in terra ed innalza l’uomo ed i suoi pensieri al cielo.

    Una via crucis laica,
    è quel che ha organizzato Giuliano. Un’operazione tanto necessaria quanto contraria allo spirito dei tempi: nell’età del multi-tasking, dell’intrattenimento continuo, del rifiuto della riflessione mascherato da fuga dalla noia, condividere testi come “nuclei di pensiero” quindi mettere ognuno – tutti nella condizione di dovervi meditare sopra. Ognuno perché di ognuno è la fatica della salita. Tutti perché collettiva, comune (e anche questo quanto è opposto alla ferocia imperante dell’individualismo di massa) è la volontà di portare a termine il cammino. E, come in una via cruscis, c’è anche il sacro. Quello che ci scopriamo dentro: quello che avvertiamo ineffabile, proprio in cima ai monti o in mezzo al mare, al confine tra noi e l’immenso; tra noi e l’eterno. Una passeggiata in montagna e qualche poesia. Un happening e un momento di Resistenza.

  2. Commentare…difficile qui da te, caro amico, lasciare un commento. I tuoi pensieri, le tue poesie mi lasciano, mi regalano delle sensazioni che sono un po’ come i sapori, non riesci a descriverli ma li ricordi a lungo e ti fanno sentire a casa oppure viaggiare con il pensiero.
    Spero tanto, un giorno, di poter passeggiare e condividere pensieri insieme.
    Un abbraccio.
    Mìgola

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