This page was exported from nalènt... [ http://www.diaolin.com/wordpress ]
Export date: Tue Dec 10 21:53:17 2024 / +0000 GMT

Digressioni sulla Civiltà (i testi)


Seguite le pagine (numeri in fondo) se volete vedere tutto il testo.


httpv://www.youtube.com/watch?v=EdiS1ML-c8g


re_IMG_9655
ore 9:10 all'esterno di Malga Sass

(Diaolin)

Vernuga, Grosio di Valtellina


3 Novembre 1918


Alla Pregiata attenzione dell' Egr. Sig. Colonnello Armando Montanari - Comandante il 138° reggimento di fanteria.


Umilmente chiedo scusa se con queste mie righe ruberò del tempo prezioso alla signoria vostra oberata dagli impegni del comando.
Sono Bazzeghini Caterina, moglie del sergente Bortolo comandante il secondo plotone d' assalto della quarta compagnia del secondo battaglione.
Di lui non ho nuove dal 16 di Giugno.
Affranta ne chiesi notizia al di lui signor Capitano comandante la compagnia
Il Capitano addolorato mi rispose che il mio sposo guidava l'assalto e fu colpito alla fronte sul monte Montello quel 16 Giugno.
Trovandomi ora sola con due figlie, lo stipendio mio di maestra solo bastante al minuto sostentamento, vorrei poter disporre delle poche proprietà che le mie forze non mi concedono di mettere a frutto e le vigenti leggi di dare in affitto.
Vorrei pregare la signoria vostra di intercedere presso le competenti autorità
perché sia certificata la morte del mio sposo e possa così provvedere agli impegni che la vedovanza mi impone. Al momento egli risulta ancora disperso, ma più d'uno mi ha scritto di averlo visto morire.
Il cappellano tenente Scocchera mi scrisse righe di conforto e confermò quanto già scritto dal capitano. Il caporale Giovanni Tomei, di cui mai avevo udito prima, mi scrisse per dirmi che il mio diletto gli aveva salvata la vita. Egli lo vide morire: il petto squarciato da una scheggia di bomba. La prego ancora, con filiale devozione, di provvedere al disbrigo di quei documenti che ancora fossero di competenza della Signoria vostra.
Ringraziandola di cuore per quanto Lei vorrà operare, devotamente mi firmo
Marta Besio vedova Bazzeghini.

(da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler)

(Dallagiacoma)
A volte scopri che la tua storia potrebbe essere stata diversa se tu fossi riuscito a finire prima la tua guerra. A volte è la tua guerra interiore ad alimentare il futuro e ti sembra che senza di essa quella speranza possa sfumare in noia. A volte la storia si sovrappone a te che la vivi per riannodare il tuo cammino ad un filo costantemente teso tra ieri e domani, portandoti a ripercorrere un tempo compagno dei tuoi passi per lunghi anni. Poi, finalmente, il filo si spezza e riesci a comprendere il tuo oggi.

Le bandiere che troverete lungo il tragitto le ho messe solo come fonte di riflessione, nessun giudizio pur essendo fondamentalmente delle considerazioni di poche persone oggi presenti. Non vi chiedo di accettarne supinamente il contenuto ma di provare a rianalizzarlo in un contesto personale; alla fine del percorso prima di scendere avremo modo di discutere tutti assieme questo aspetto che potrà sicuramente apparire azzardato ma, ripeto, si tratta solo di osservazioni: non sto parlando di destra o di sinistra ma sto parlando dell'ignavia dell'uomo nei confronti dell'uomo stesso.

Andiamo...

 

Vi prego di non chiacchierare durante il tragitto per fare in modo che il momento sia con noi stessi. Ovviamente questo non vale per i bambini che parteciperanno con i loro tempi e con i loro modi e faranno da corona al nostro percorso.

(Durante il tragitto ogni 100-150 metri Michele Dallagiacoma declamerà a caso uno dei pezzi da “http://ilfascistainnoi.diaolin.com” anche interrompendo eventuali declamazioni/letture)

(Dallagiacoma)

 

re_IMG_9487

 

(Diaolin)

28 luglio 1914


Ciao mama,
è arivà ‘n pefèl de carta, na comanda con su ‘n stèmpel
cognò nàr via sui Scarpazi che me ciàma la morosa
gh'è su scrit che se refùdo no la me vorà pu bèn
e i podrìa seràrme via par sbaràrme ‘n de la schéna


a contartela dal bòn no me l'èra mai ‘ntaiàda
de sto amor co na furèsta che de ‘n tràt la me völ mi
ma anca al Bepi caretér la gà scrit, brùta putàna,
con na storia sqoasi istéssa la völ törsel dré anca él


gia par qoél fon la valìss e on lì ‘mprèssa a farla föra
che la sàpa che noiàltri nel basàn, l'amor, col cör
dighel ti a la mè putàta che no l'era ‘mprofumada
ma che ‘l l'à portada ‘n òm con en stùzen sota ‘n bracc


ne vedren un de sti dì, giust el temp de dirghen doi
te saludo, par entànt, dàghe ‘n bàso al mè oselét


28 luglio 1914
Ciao, mamma, | è arrivato un foglio di carta, un ordine timbrato | devo andare sui Carpazi che mi chiama la morosa | c'è scritto sopra che qualora rifiutassi lei non mi amerebbe più | e sarei incarcerato e fucilato nella schiena | ma per dirla sinceramente non me n'ero mai accorto | di questo amore con una forestiera che ad un tratto vuole me | ma anche a Giuseppe, il carrettiere, gliela ha scritta, brutta puttana | è una storia quasi uguale per portarsi via anche lui | quindi faccio la valigia e vado subito a chiarire | che lo sappia che da noi lo baciamo, l'amore, col cuore | dillo tu alla mia fanciulla che non era profumata | ma che l'ha portata un uomo col fucile sotto braccio | ci vedremo uno di questi giorni, giusto il tempo di dirgliene quattro | ti saluto, per il momento, dai un bacio al mio uccellino

 

Ripartiamo e poi seconda fermata dove leggerò un pezzo dalle lettere di Daniel Suchert di Schuler

(Dallagiacoma)



Otto mesi: Era il lavoro degli scalpellini che si svolgeva all'aperto ed era stagionale; li occupava dalla primavera fino al tardo autunno. Un poco come i lavoratori delle nostre cave di porfido di Albiano.
Finché saranno aperte!

I


La montagna non voleva finire.
Passo dopo passo nella neve
per risparmiare il postale
con due ricambi nello zaino,
le bocciarde e gli scalpelli,
pane e salame,
formaggio e vino.
Otto mesi tra gli zucchini;
a casa Marta e due bambine.
Non cerco la fortuna;
solo di tirare un altro anno.
Notte stai lontana,
con i polmoni pieni di polvere,
a trent'anni si è già mezzo vecchi.
Notte stai lontana:
al passo e al pane fammi arrivare.


(da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler)
(Dallagiacoma)

 

re_IMG_9485

 

Terza fermata siamo arrivati ai Pradi da le Fior: lasciamo che il didgeridoo accompagni la nostra fermata al bivio per salire fino al margine del bosco: si aprono gli orizzonti e possiamo finalmente comprendere il percorso silenzioso che abbiamo seguito finora. Ci fermiamo per dieci minuti o finché l'amico Robert si fermerà poi proseguo io con una mia poesia prima di incamminarci nuovamente verso la sosta.
(Diaolin)

la colpa


l'ài vista mi, dalbòn l'ài vista coi mè òci
l'è sta' na stéla che la usmàva dré la luna
a sconfionàr qoel brigolàr de pés 'n te 'l ciel
fin dré da 'l mont 'n do che 'l tendeva 'n redesèl
el le à ciapade tute, 'nsèma, e s'è fat nòt
le se è lagàde tör par giro da na fàda
che la ga 'l mus che cambia cìfe dì par dì
fasèndo creder che fus colpa de 'n sol cép
ma tut de 'n trat el sbròca 'n sgiànz de istà broènta
e 'n te 'n sfiantùgem tut bolìfe a scarmenón
fòrsi stanòt se è delibrà valguni
e 'l ciel l'è a strìse istess a i scuri de preson


la colpa
l'ho vista io, davvero l'ho vista, con i miei occhi | è stata una stella che pedinava la luna | a strattonare quel brulichio di pesci nel cielo | fin dietro al monte dove era tesa una rete | le ha prese tutte, insieme, e s'è fatto buio | si son lasciate prendere in giro da una fata | col viso che cambia aspetto giorno per giorno | facendo credere che la colpa sia del sole fiacco | improvvisamente esce un caldo raggio d'estate | ed in un lampo una fontana di lucciole sparpagliate | forse stanotte qualcuno si è liberato | e il cielo è a strisce come le imposte di una prigione

 

(Dallagiacoma)

 

(Diaolin)

 

Proseguiamo ora verso il limitare del bosco dove, con gli amici Mauro, Lina, Robert, Antonio e quanti altri vorranno dire la loro, racconteremo una storia che potrebbe essere accaduta proprio domani.
Vogliamo essere liberi e finalmente cercheremo di esserlo ripercorrendo il nostro ieri.
Appena arrivati inizia Robert e io leggerò le due lettere di Daniel inframezzate da Dallagiacoma poi proseguirà Mauro (Robert suona flauto o didgeridoo quando vuole).
Susch: Era poco più di un villaggio all'inizio del ‘900 e conta anche oggi poco più di 200 abitanti. Si trova sulla sponda sinistra dell'Inn ad una quota di 1. 438 m ed è completamente circondato da montagne. Il punto più elevato del suo territorio comunale è il Piz Linard che raggiunge i 3.411 m di quota. La cava di granito era, allora, l'unica sua attività economica di rilievo.

 

II


Susch, Giugno 1914
La pietra è cattiva
e poca è la paga.
Sei giorni a cavare
e poi uno a dormire,
ma si fatica la spesa
e poco resta per casa.
Rinunci al vino,
al mezzo toscano,
ma il soldo non basta.
È pietra dura
che non si lascia tagliare
ed io passo il tempo a pensare
alla stagione che è troppo breve;
alla stagione che sembra non finire,
mentre Marta aspetta
con il sorriso allegro,
una figlia in braccio
e l'altra per mano.


(da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler)

(Dallagiacoma)

(Diaolin)

 

Comincia la guerra anche per il nostro amico Bortolo e la sua battaglia interiore si infervora e le domande lo attanagliano.

 

V


Alla mia classe è arrivata la cartolina.
I miei paesani vanno alla guerra
e io sono qui che non so cosa fare.
Stare in Svizzera ad aspettare?
Tutti dicono che dura poco,
un paio di settimane e poi e poi è finita.
E allora tanto vale andare:
che non si dica che è mancato il coraggio.
Metto giù gli scalpelli,
riempio lo zaino,
torno a casa e poi via soldato.
Marta sarà in chiesa a pregare
che quello stupido se ne resti là;
che non venga a farsi ammazzare
Le guerre durano sempre due settimane,
dicono i signori che non le fanno;
non son loro a star via per anni.
Basta ricordarsi Adua e la Libia
che morti alle famiglie ne hanno portati
e medaglie e discorsi e bei monumenti.
E gloria e lustro alla bandiera
che la mattina ti tocca insegnarli a scuola,
ma pane no e neanche lavoro:
solo tasse per pagare i cannoni.


(da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler)


(Dallagiacoma)

(Diaolin)
Ho conosciuto Mauro ad un Salotto dell'amica Irene Dolzani che si è tenuto a Valmorel, località dove Dino Buzzati ha ambientato il suo “Miracolo”. Il suo Rossa Terra è stato una specie di amore al primo ascolto:  subito dopo aver sentito la lettura gli ho detto “Caro Mauro, il prossimo anno facciamo una cosa insieme in montagna con questa incredibile storia”

 

(Mauro Tonino)

re_IMG_9563

 

Letture dal libro ROSSA TERRA

In navigazione


Filippo disarmò la randa per rendere più dolce l'abbrivio, così da poter gustare il pranzo senza i patemi di un'attenta navigazione. Lì, soli in mezzo al mare, senza barche in vista per miglia, a Filippo pareva di essersi estraniato dal mondo, di vivere dei momenti in un altro contesto, in un'altra dimensione. La pastasciutta preparata dal nonno era sublime, impeccabile nella cottura, come nel condimento, ricetta originale, misto di carne simile a gulasch.Fece i complimenti a Marino, questi sorrise, poi lanciò l'amo
"Nonno, non sei più ritornato nella tua terra?"
"No" disse Marino abbassando lo sguardo.
"Ti manca?" chiese timidamente Filippo, aspettandosi una risposta liquidatoria.
Marino invece rispose con garbo
"Sì, mi manca, sogno a volte quei luoghi, sogno mio padre, la mamma, la nonna, e sento ancora il profumo delle pinete, l'aroma di resina, e l'odore acre di un cespuglio del quale non ricordo più il nome, tutte fragranze che si espandevano nei prati e nei boschi a primavera. A volte riemergono dal fondo dello scrigno dei ricordi le immagini dell'abbeveratoio per buoi e capre, la piazza, la chiesa e la canonica, luoghi, dove si consumò una un'immane tragedia, della quale fui inerme spettatore, e che forse ti narrerò … .".
"Vorresti tornarci?"
"No" fu la risposta.
Dal tono determinato, quel rifiuto assumeva quasi l'espressione di una sentenza definitiva. Filippo insistette
"Parlarne ti fa soffrire nonno?"
"Sì" rispose Marino sempre con lo sguardo abbassato, poi posò la forchetta con gli spaghetti avvolti intorno, e si accarezzò i capelli. Con l'ardore e l'ostinazione giovanile, Filippo proseguì, ormai il colloquio stava entrando nella loro carne. Entrambi si guardarono negli occhi, il sole di mezzogiorno, la brezza, il lieve ondeggiare della barca, erano ora sensazioni così lontane da quell'anziano e da quell'uomo ancora acerbo. Erano lì, soli, messi a nudo l'uno di fronte all'altro, davanti al proprio passato e al proprio futuro. Filippo si accorse di aver azzardato, la direzione intrapresa portava ad un bivio, il viaggio avrebbe potuto concludersi in quel momento e invertire la rotta per rientrare sicuri in porto, oppure proseguire fin chissà dove, scoprendo inevitabilmente se stessi.

(Dallagiacoma)

30 secondi di pausa

(Mauro Tonino)

 

La matrigna


La cena si consumò in silenzio.
Filippo aveva adottato una strategia attendista con il nonno, il viaggio era ancora lungo e sentiva che il tempo avrebbe giocato a suo favore se avesse lasciato a Marino i tempi giusti per aprirsi. Dopo cena Filippo avvertì il nonno dell'intenzione di scendere di nuovo a terra, si sarebbe aspettato qualche osservazione o divieto, invece la risposta fu un laconico
"Ve ben, ma non allontanarti troppo e soprattutto non far tardi".
Dopo essersi fatto un giro nel centro storico, osservato le antiche mura, e buttato l'occhio dentro i negozietti pieni di cose multicolori, controllò l'ora e decise di rientrare. Dal molo intravvedeva in fondo la barca ormeggiata, allineata in mezzo ad una moltitudine di natanti, quella sarebbe stata per lui casa, rifugio e oracolo per diversi giorni. In quell'area poco illuminata si stagliava la brace rossa della sigaretta che identificava la posizione di Marino sulla barca. Avvicinandosi gli occhi si abituarono alla semi oscurità, così intravide il vecchio marinaio seduto a poppa con lo sguardo rivolto verso il mare. Filippo risalì commentando la breve escursione a terra
"E' carina Cittanova d'Istria".
"Sì, lo so".
Azzardò una domanda
"Perché gli hanno cambiato il nome?"
"I vincitori di una guerra riscrivono sempre la storia" .
Filippo non riuscì a comprendere completamente cosa volesse dire il nonno, ma riteneva che per ora quella risposta dovesse bastare. Cercò allora di dirottare la conversazione su altro, sperando che questo potesse far sciogliere il mutismo nel quale si era racchiuso Marino, dopotutto si era impegnato solennemente a parlargli del proprio vissuto.

(Dallagiacoma)

 

A questo punto interviene Robert Mitterrutzner con il didgeridoo che smetterà dopo che Lina avrà ripreso il racconto

(Lina Morselli)

re_IMG_9575

BAINSIZZA


 

Caporetto oggi si chiama Kobarid, è in Slovenia, per gli italiani è ancora sinonimo di disfatta, gli sloveni ne parlano come di un miracolo.
La cittadina di Kobarid è ordinata, pulita, un misto architettonico fra tradizione strettamente autoctona e prolungamento dell'Austria, nelle forme, nei colori, negli ammiccamenti a un passato tanto recente quanto remoto.
Il Museo della Guerra è molto bello, sia per la sua ubicazione in un'antica casa riadattata con rispetto e cura, sia per la passione con la quale è stato allestito e viene tutt'ora condotto. Nel museo di Kobarid si entra quasi con baldanza, con la giusta curiosità storico-turistica che prevede una guida in mano con un dito fermo a fare da segnalibro per la meta successiva, nella convinzione che la visita durerà quanto basta per consentire altre scoperte, prima della sera. Ma ben presto il passo rallenta, la voce cala d'intensità, fino a raggiungere il silenzio, e tra i visitatori, pochi o tanti che siano, l'emozione si taglia col coltello. Nelle grandi stanze è esposto tutto ciò che la Grande Guerra ha significato, nell'orrore della distruzione come nelle tecniche belliche che poi verranno perfezionate nel corso della storia, fino ai nostri giorni: equipaggiamenti, armi, gas, abiti, ospedali da campo, dotazioni varie … E foto, moltissime fotografie, straordinarie; allora i fotografi erano i benvenuti fra i soldati, come i giornalisti, e non tutti venivano manipolati da una propaganda che presentava la guerra come “bella, eroica, vitale”. Qui ci sono anche fotografie che rendono omaggio solo al vero, che non camuffano il reale, nemmeno quando ritraggono gruppi di uomini insieme, col bicchiere alzato, neppure quando mostrano i nemici. Già, i nemici: qui scompaiono, la testimonianza museale è un abbraccio che non si ferma davanti a bandiere o mostrine, qui la guerra è di tutti e per tutti e finalmente ci si sente uguali, nell'impotente vergogna di quella violenza insensata, che nessuno ha avuto la forza di evitare. Più di una volta torno sui miei passi, a rileggere le didascalie accanto ad oggetti e fotografie, e sono queste ultime che mi affascinano di più, prime fra tutte quelle che mostrano resti di paesi, di strade, occupate solo da truppe, perché i civili erano sfollati altrove. Sopra una casa c'è l'insegna “Kavarna” e sotto il cartello “Caffè” e realizzo: qui gli invasori erano gli italiani.
Allora riguardo tutti i soldati ritratti, nella speranza di riconoscere mio nonno, Fermo Giuseppe Ongari, partito nel 1916, a 23 anni, e arrivato fin da queste parti, fino all'Altopiano della Bainsizza, alla cui estremità c'è Kobarid. Mio nonno non compare nelle foto, ma io me lo rivedo: un giovanotto con due mani sproporzionate al resto del corpo agile ma piccolo, perché non può essere grande e grosso chi ha cominciato a lavorare in campagna a 7 anni. Fermo Giuseppe aveva anche i baffi, scuri come i capelli e gli occhi, e cantava da tenore con una voce bellissima. Il canto e la musica erano la sua passione, ma questo non gli ha impedito di diventare un bravissimo agricoltore, specializzato in ortaggi. Da suo padre, di cui parlava pochissimo, aveva imparato a governare le bestie, a coltivare meloni, a preparare il terreno giusto per asparagi e fragole. A Fermo Giuseppe piaceva lavorare la terra, anche se qualche volta gli ho sentito dire che sarebbe stato meglio andare a scuola, ma lui era stato fortunato perché aveva fatto fino alla seconda elementare e sapeva leggere e scrivere. Neppure di sua madre parlava molto. Una volta sola mi aveva detto che ricordava forse l'unica raccomandazione che madre e padre gli facevano in continuazione: mai fare del male, a nessuno, per nessun motivo, non fare del male agli altri.
Con quelle parole nelle orecchie, Fermo Giuseppe bambino teneva la cavezza delle bestie che tiravano l'aratro mentre il resto del mondo ancora dormiva. Con quelle parole, “non fare del male”, Fermo Giuseppe andava col fratello al coro della domenica in chiesa, lui a cantare e il fratello a suonare il violino, un fratello amatissimo, e geniale: sordastro, analfabeta, suonava il violino magistralmente, in paese c'era chi sosteneva che dovesse andare al conservatorio, ma avrebbe dovuto almeno prendere la licenza elementare. Fermo Giuseppe l'ha accompagnato anche l'ultima volta, al cimitero, per colpa della tubercolosi, e ha conservato il violino per tutta la vita, pur perdendo l'archetto in chissà quale trasloco.
“Non far male a nessuno” risuonava sempre dentro di lui, mentre diserbava, concimava, mungeva, si faceva crescere i calli nelle mani e gli si ingrossavano le unghie, mentre con gli altri fratelli più grandi metteva via centesimo su centesimo per comprarsi un po' di vacche da latte, poche all'inizio, ma se tutto fosse andato bene si poteva riempire la stalla e poi comprare anche un po' di terra, e salutare il padrone e alzare la testa.
“Non far male a nessuno, mai”, risuonava nelle orecchie di Fermo Giuseppe mentre il treno lo portava oltre il Piave, strizzato in una divisa che gli legava i movimenti e con la quale addosso non sarebbe stato possibile neanche segare l'erba medica col ferro. Non so dove sia stata la sua prima destinazione, ma di certo ben presto è arrivato in trincea, in prima linea, un fantaccino come tanti, che parlava solo dialetto, carne da cannone.
pausa
(Dallagiacoma)

 

 

re_IMG_9577
pausa
A noi nipoti giovani e teneri, che lo ascoltavamo durante i pranzi nella grande cucina disturbata solo dal ronzio di uno dei primi frigoriferi del boom economico, anni dopo, raccontava che era brutto stare in trincea, usava solo queste semplici parole, e solo ora mi rendo conto della loro forza tragica. Forse perché solo oggi ci sono stata dentro a una trincea, proprio a Kobarid, dove una lunga trincea dell'esercito italiano è stata perfettamente ricostruita e la si può precorrere, anche nelle tante e lunghe diramazioni che partono dal tracciato principale. Prima dell'ingresso nella trincea di quella che per noi resta Caporetto, un coro sloveno aveva cantato alcuni canti di guerra, con l'accompagnamento di una chitarra e di una fisarmonica. A mio nonno sarebbero piaciute quelle voci limpide, quelle parole difficili e lontane che nessuno di noi ha sentito il bisogno di tradurre, perché era chiarissimo cosa stavano dicendo, tutti noi abbiamo capito che si parlava di madri, di fratelli, di spose e fidanzate, dei profumi delle proprie terre.
Risentivo la voce di mio nonno Fermo Giuseppe, che vangando nell'orto di casa mia, già anziano ma ancora pieno di vigore, canticchiava spesso una canzonetta breve ma intensa, di quelle che nessun coro degli alpini metterà mai in repertorio

“Il general Cadorna
ha scritto alla regina:
se vuoi veder Trieste
la vedi in cartolina
Bim Bum Bom,
la Nina a cul buson”.


(ndr. magistralmente cantata da Lina)


E poi via, dentro alla trincea, con mio nonno dietro, e le sue parole di sempre “Non fare mai male a nessuno”.
La trincea è il luogo per eccellenza in cui organizzare una mattanza: stretta, profonda, soffocata, impone il camminamento, impossibile la corsa, scura, persino le feritoie non servono a filtrare la luce. Adesso attraverso quelle fessure lunghe e strette si intravede la montagna verde, qualche foglia si intrufola dentro. La natura è sempre stata lì, a scandire le stagioni, a cambiare la faccia al cielo, alla terra, a segnare cocciutamente un tempo che agli uomini, in trincea, era vietato. Fermo Giuseppe alzava gli occhi, aguzzava la vista, e vedeva pezzi di azzurro e di verde, terre fertili e gentili ridotte a poltiglia, casolari sparsi con stalle vuote, e lui, al posto della vanga, stringeva un fucile. Mi aveva raccontato che lui lo teneva stretto sì, il fucile, ma non era né bravo né svelto a caricarlo.
Ho fatto tre assalti, sai, per tre volte sono uscito dalla trincea, ma io sparavo a caso, sparavo in aria.
Ma nonno, non si può! Se tutti avessero fatto così, gli austriaci vi avrebbero ammazzati tutti.
Lo so, ma io non riuscivo a pensare di uccidere qualcuno, non volevo, non ce la facevo. Come potevo uccidere uno che neanche conoscevo? Cosa mi aveva fatto a me? Mia madre mi diceva sempre di non fare mai male a nessuno, e io non riuscivo a mirare agli uomini.
Lì, dentro la trincea, pagherei una cifra per sapere chi era l'ufficiale che dava ordini a mio nonno, e vorrei stringergli la mano, offrirgli un caffè e parlare con quell'uomo che ha capito il dramma, che non ha applicato la legge marziale per il fante Fermo Giuseppe Ongari. Forse veniva dalle stesse campagne, forse era un socialista non interventista, forse più semplicemente un uomo che cercava disperatamente di restare tale. Oggi diremmo che riusciva a non perdere la tenerezza. Pagherei una cifra, mentre un po' di sole filtra tra le feritoie, per sapere quale dialogo c'era stato fra i due, in quale pezzo di trincea si era deciso il destino di mio nonno.
L'ufficiale lo aveva ripreso, duramente, certo, ma gli aveva offerto un'alternativa, che avrebbe accontentato anche il comando, se avesse saputo, rischiosa quanto basta, ma forse l'unica possibile: lo spediva nelle retrovie, a fare da becchino ai morti di spagnola. O i morti li seppelliva, o li faceva sparando. Fermo Giuseppe ha preferito seppellirli, rischiando di ammalarsi e di morire di febbre, ha caricato carretti di poveri giovani ridotti pelle e ossa e li ha rivoltati in fosse comuni, conservando le piastrine di ognuno di loro. Il giovane Fermo Giuseppe era forte, e forse fortunato, e la spagnola non l'ha presa, ma con la morte ci ha parlato a lungo, l'ha conosciuta così da vicino da sentire famigliarità con i suoi volti. Brutta la morte, anche quella per spagnola, ma neppure quella volta è venuta meno la profonda bontà di Fermo Giuseppe, che raccontava: “Quello era un lavoro che andava fatto, qualcuno doveva pur farlo, ed era toccato a me”.
Il mio percorso nella trincea di Caporetto continua, è lungo, più lungo del previsto. Ad un certo punto si perdono le coordinate, la terra sotto i piedi comincia a dirti qualcosa, come i muri che sfiorano le spalle: se ascolti bene e se guardi con gli occhi socchiusi, sotto le scarpe si attacca il fango, dai muri comincia a gocciolare umidità, e arriva anche un odore che non sai decifrare subito, ma che associ al marcio, all'urina, all'acidulo di materiale organico in decomposizione. Mi accorgo di essere stanca di camminare lì in mezzo, voglio uscire, voglio che il cielo si apra, quella striscia di azzurro sopra di me la sento come un tappo e mi sale il magone, temo di non riuscire a controllarlo, le note lunghe di quei canti disperati, sentiti prima di questo percorso, mi risuonano nelle orecchie, sono il linguaggio universale del dolore, che a tutte le latitudini e in tutti i tempi si esprime con un lamento e ti pervade l'anima.
Cammino in mezzo alla disperazione, ed è peggio che vederla in fotografia, peggio che immaginarla tra le mazze ferrate ancora scure di sangue che ho visto nel museo. L'unica consolazione è la presenza di altri, seppur distanziati davanti e dietro di me, dei quali sento i passi, ma non le voci, perché anche qui, dopo i primi minuti, tutti hanno smesso di parlare, e il nostro silenzio è rotto solo dal respiro affannoso di qualcuno che comincia ad avvertire più di altri la fatica di quelle salite brevi ma ripide, che ti colgono all'improvviso, e che non puoi aggirare.
Doveva essere così anche per quella povera gente mandata al massacro, per mesi, per anni. Doveva essere così anche per mio nonno Fermo Giuseppe, richiamato dalle retrovie, perché la mattanza stava funzionando alla grande, la gente moriva in prima linea, e i morti andavano rimpiazzati dai vivi, per farne altri morti. Ed eccolo, Fermo Giuseppe, spedito sulla Bainsizza, magari proprio nella trincea che sto percorrendo io, imprigionato in una terra ostile, lui, che con la terra invece era abituato a parlarci, che la conosceva e la trattava come una persona, lui, che di terra aveva vissuto e voleva continuare a vivere, lui, che la terra l'amava. Me lo vedo, appoggiato a un fucile, a guardarsi intorno smarrito, a rischiare la salute mentale.
Mio nonno Fermo Giuseppe non ha mai parlato degli altri, nessuno di noi nipoti ricorda la citazione di nomi e cognomi, il racconto di amicizie di guerra. C'erano diversi dialetti da superare, e non c'era per tutti l'italiano ad unificare i pensieri. Mi sforzo di ricordare, mentre mi arrampico su una ripida scaletta di pochi gradini molto alti, scavati nella terra e tenuti compatti da assi di legno, e mi sovviene un'altra scarna ed essenziale informazione: mio nonno aveva condiviso una parte di vita di trincea con dei sardi, che lui chiamava “sardagnoli”. Gli erano rimasti impressi perché bevevano più degli altri e stava partendo a raccontare di acquavite e qualche altro liquore, forse cognac, che si beveva là, dentro l'inferno, ma lui non si era mai ubriacato, non gli piaceva tanto quella roba di cui invece molti si riempivano. Mia nonna quella volta gli aveva impedito di andare avanti, con una delle sue occhiate taglienti, e l'ubbidiente marito si era davvero fermato. Allora ero troppo piccola, non capivo, andavo a scuola, sì, ero già più acculturata di loro, ma ben lontana dalla loro saggezza e dal loro buon senso: quella vita non si poteva raccontare a una bambina di otto anni, meglio aspettare, o forse, meglio dimenticare.
Anche il prezioso e perfetto restauro della trincea di Kobarid ha una fine e il ritorno in superficie, all'aria aperta, è un sollievo per tutti. Il bosco intorno ha ripreso vigore, il sole scalda la pelle, in fondo si vede la vallata con case e strade, ma per tutti, me compresa, il panorama è come una tela dipinta, sotto la quale, grattando solo un po', emerge un altro disegno. Lo stesso disegno a due colori che deve aver visto mio nonno Fermo Giuseppe il giorno in cui ha deciso di non starci più, di non poterne più, di non voler più obbedire agli ordini, che lui di guerra non ne volevo più vedere e fare. All'ordine di scagliarsi all'attacco lui ha pure risposto, è uscito sì, di corsa, con un balzo, dalla trincea, di certo col fucile in mano e l'elmo in testa, ma la corsa, quella volta, l'ha diretta lui, verso la sua meta: un grosso albero frondoso, di sicuro adocchiato da giorni da una delle feritoie. Qualcuno l'ha visto arrampicarsi come un gatto fin quasi alla cima dell'albero? Qualcuno sapeva del suo folle progetto? Un ufficiale si è girato ancora dall'altra parte fingendo di non vederlo? Non lo so. Mi piace pensare che l'albero fosse un platano, perché di platani era pieno il pezzo di pianura in cui era nato Fermo Giuseppe, un po' dovunque i platani segnavano i corsi d'acqua, le strade, o davano ombra alle corti sparse nelle campagne. I platani avevano assistito alla sua vita scandita dalle stagioni, mille volte aveva accarezzato il loro tronco liscio e possente alla fine di un'aratura o di una semina, e mi pare giusto pensare che ad un platano si debba la salvezza della sua vita. Tre giorni Fermo Giuseppe è rimasto tra le fronde del platano, tre giorni e tre notti, senza mettere un piede a terra, senza sporgersi oltre il fitto del fogliame, mentre assalti e silenzi si susseguivano, ma la trincea restava sempre lì, troppo vicina per provare a scendere e correre, l'avrebbero visto, e sarebbe stata davvero la fine. Meglio stare lì, meglio morire di fame e di sete che tornare là dentro, che sentirsi stordire da chissà quale alcool, meglio restare coperto dalle foglie, aspettare la neve, sentirsi gelare, finire come gli uccelli in inverno, meglio così, meglio “non fare mai male a nessuno”. Se è vero che la guerra rende possibili comportamenti impensabili in tempi di pace, è altrettanto vero che lì, quella volta, sulla Bainsizza stravolta, mio nonno Fermo Giuseppe ha scoperto di possedere una lucidità e una cocciutaggine insospettabili, credo che lui stesso, dopo, durante la sua vita, ne sia stato meravigliato e più volte si sia domandato come fosse stato possibile, da parte sua, un simile atto. La più dura dev'essere stata la fame, sul platano non c'erano frutti e lui non aveva scorte di viveri con sé. Una sola volta, dopo anni, ha raccontato che frugando in tasca aveva scoperto di possedere alcuni chicchi di pepe, chissà come finiti nella sua giubba. In quei tre giorni centellinava granelli di pepe, e tale era la sua convinzione che quello fosse comunque un cibo, che riusciva a farselo bastare, gli sembrava che dopo aver rotto tra i denti una pallina di pepe davvero lo stomaco lavorasse e un po' di energia restasse dentro di lui. Intanto la storia andava avanti e gli assalti si susseguivano. Fermo Giuseppe non lo sapeva certo, ma dall'altra trincea sparavano austriaci e prussiani, arrivati a dare man forte nella conquista di quell'altipiano decisivo. Ed eccoli spuntare i tedeschi, i prussiani, fino al suo platano, né angeli né fantasmi, né nemici né compatrioti: uomini, in divisa, ma uomini, quelli che lui non voleva uccidere, quelli su cui lui non voleva mirare. E Fermo Giuseppe, è sceso dal platano, con le mani alzate, verso un altro destino incerto. Nessuno dei terribili nemici armò il fucile, nessuno lo picchiò in testa col calcio dell'arma, forse qualche spinta, di certo una rapida perquisizione, alcune frasi col tono di un ordine in quella lingua dura, ma sì, era andata: basta guerra, era prigioniero. Scendo per il breve pendio che riporta me e il mio gruppo verso l'imboccatura della vallata, attraverso una radura verdissima, con migliaia di piccoli fiori fucsia. Il grande prato è ben curato, qualcuno qui, in questa fetta di Slovenia che prima era italiana, sa che i tagli periodici devono comunque consentire alla flora spontanea di crescere e moltiplicarsi. E' quasi tangibile il rispetto per la natura e la storia, l'equilibrio che deve permettere ad entrambe di sostenersi a vicenda. Credo che questo sia lo spirito che ha portato alla conservazione e alla ricostruzione fedele della trincea di Caporetto, alla bellezza composta del Museo della Grande Guerra, alla civiltà con cui tutto viene offerto al visitatore, chiunque lui sia. Non c'è il compiacimento dei vincitori, né si sente il peso della sconfitta dei vinti. Dovunque, qui, echeggia il pensiero che ha guidato mio nonno Fermo Giuseppe a salvarsi la vita: “Non fare male a nessuno, mai”. Io credo che Fermo Giuseppe abbia vissuto la sua esperienza straordinaria senza rendersi conto del peso della sua scelta: lui, semplicemente, non ne poteva più, quello sforzo era superiore a quelli che aveva sempre fatto, quella fatica non riusciva a reggerla, non per paura, né per codardia, ma perché davvero dentro di lui non era capace di viverla. Io, bambina, mi chiedevo cosa sarebbe successo se tutti, proprio tutti avessero fatto come lui e oggi la risposta è molto chiara: la guerra sarebbe finita, anzi, non sarebbe neppure cominciata. Utopia, certo, ma anche la più folle delle fantasie può soffiare una scheggia della sua forza in qualche lobo cerebrale, e lì può crescere, o restare a guardare. Mio nonno Fermo Giuseppe quella follia se l'è tenuta dentro da quando aveva sette anni, e ciondolava di sonno in mezzo ai campi, in compagnia del cavallo da tiro, mentre ancora era notte: “Non fare male a nessuno, mai”, e l'ha portata con sé per tutta la vita, la frase il seme e lui il buon terreno per farlo germogliare. Nessuno è morto per mano sua, mio nonno Fermo Giuseppe, contadino ignorante, fantaccino fatto e finito per morire in guerra, ha usato la sua profonda bontà per opporsi a quel mostro, ha alzato le mani per arrendersi alla vita e per beffare la morte. Mio nonno Fermo Giuseppe, nato il 16 maggio 1894 e morto per broncopolmonite il 19 dicembre del 1972, lui, soldato semplice, ha vinto la Prima Guerra Mondiale, su un platano frondoso, mangiando pepe, sull'altipiano della Bainsizza.


Qualcuno l'ha visto arrampicarsi come un gatto fin quasi alla cima dell'albero?


(Dallagiacoma)



 

(Stefano Fait)

 

re_IMG_9583

 

La leggenda del Grande inquisitore


F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov .


 

Nel romanzo è Ivàn Karamazov che narra al fratello Aliòscia la leggenda.

 

“…Essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci!”. Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli…A noi sono cari anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dei per avere acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in nome Tuo. Li inganneremo di nuovo, perché allora non Ti lasceremo più avvicinare a noi. E in quest'inganno starà la nostra sofferenza, poiché saremo costretti a mentire. Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata più in alto di tutto.

In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all'universale ed eterna ansia umana, dell'uomo singolo come dell'intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c'è per l'uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l'uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell'uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme. E questo bisogno di comunione nell'adorazione è anche il più grande tormento di ogni singolo, come dell'intera umanità, fin dal principio dei secoli. È per ottenere quest'adorazione universale che si sono con la spada sterminati a vicenda. Essi hanno creato degli dei e si sono sfidati l'un l'altro: “Abbandonate i vostri dei e venite ad adorare i nostri, se no guai a voi e ai vostri dei!”. E così sarà fino alla fine del mondo, anche quando gli dei saranno scomparsi dalla terra: non importa, cadranno allora in ginocchio davanti agli idoli.
[…].
Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l'autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti così l'esempio….[Ma] siccome l'uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, così si creerà dei nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai sortilegi di una fattucchiera, fosse egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo”.
[…].
Abbiamo corretto l'opera Tua e l'abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull'autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono così terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti….

 

 

La leggenda del re Pescatore


Terry Gilliam


Parry (Robin Williams) e Jack (Jeff Bridges)

 

Scusami se mi prendo la libertà, ma... Tu non mi sembri per niente un cuorcontento. La conosci la storia del Re Pescatore? Comincia col re da ragazzo, che doveva passare la notte nella foresta per dimostrare il suo coraggio e diventare re. E mentre passa la notte da solo è visitato da una visione sacra: nel fuoco del bivacco gli appare il Santo Graal, simbolo della grazia divina. E una voce dice al ragazzo: "Tu custodirai il Graal, onde possa guarire i cuori degli uomini". Ma il ragazzo, accecato dalla visione di una vita piena di potere, di gloria, di bellezza, in uno stato di completo stupore, si sentì per un attimo non un ragazzo, ma onnipotente come Dio: allungò la mano per prendere il Graal, e il Graal svanì lasciandogli la mano tremendamente ustionata dal fuoco. E mentre il ragazzo cresceva la ferita si approfondiva, finché un giorno per lui la vita non ebbe più scopo. Non aveva più fede in nessuno, neanche in se stesso. Non poteva amare, né sentirsi amato. Era ammalato di troppa esperienza, e cominciò a morire. Un giorno un giullare entrò al castello e trovò il re da solo. Ed essendo un semplice di spirito, egli non vide il re: vide solo un uomo solo e sofferente. E chiese al re: "Che ti addolora, amico?". E il re gli rispose: "Ho sete, e vorrei un po' d'acqua per rinfrescarmi la gola". Allora il giullare prese una tazza che era accanto al letto, la riempì d'acqua e la porse al re. Ed il re, cominciando a bere, si rese conto che la piaga si era rimarginata: si guardò le mani e vide che c'era il Santo Graal, quello che aveva cercato per tutta la vita. Si volse al giullare e chiese stupito: "Come hai potuto tu trovare ciò che i miei valorosi cavalieri mai hanno trovato?". E il giullare rispose: "Io non lo so: sapevo solo che avevi sete".

(Dallagiacoma)

 



 

(Mauro Tonino)

Venti di guerra


 

Passò ancora qualche minuto e lontano all'imboccatura della baia apparve Marino, Filippo rilevò che le sue bracciate erano vigorose come all'andata. Arrivato sotto bordo, come un prestigiatore che fa uscire un coniglio dal cilindro, estrasse una magnifica stella marina e la porse in visione a Filippo, inginocchiato a poppa. Il ragazzo se la rimirò tra le mani per alcuni secondi, poi Marino la chiese indietro, ricevutala, la lasciò inabissarsi delicatamente in acqua.
"Perché l'hai gettata via?" chiese stupito Filippo.
"Non l'ho gettata via, l'ho riposta in acqua, gli animali si possono ammirare, e credo che abbiamo già creato sufficiente disturbo a questa splendida stella marina".
"Gli animali e le piante si uccidono o si estirpano non per piacere, ma per bisogno, per nutrirsi o per difendersi".
"Sì, hai ragione" dovette ammettere Filippo dopo una breve riflessione.
Miglio dopo miglio, quel viaggio per mare stava diventando per Filippo un affascinante percorso di conoscenza, sia dei propri mezzi, che della vera natura del nonno. Il ragazzo pose la scaletta fuori bordo per agevolare la risalita. Marino, grondante, salì sul ponte e iniziò ad asciugarsi. Filippo silente lo osservava, notando che nonostante l'età, l'anziano istriano conservava un fisico di tutto rispetto, asciutto, senza un filo di grasso e le nervature tutte evidenti, trasmetteva la sensazione di possedere ancora forza.
"Dove eravamo rimasti?" disse Marino, mentre stava asciugandosi i capelli.
"All'8 settembre 1943!" rispose pronto Filippo.
"Noto che stai attento!"
disse sorridendo, ma dopo essersi messo l'asciugamano sulle spalle, si sedette sul pulpito.
A quel punto il sorriso scomparve per lasciar spazio di nuovo al racconto.
"Il simbolo della nostra terra è una capretta, un'immagine quasi emblematica, e profetica della fine!"
"Che cosa vuoi dire?" chiese Filippo.
"Che come lupi famelici, in un diabolico gioco di tutti contro tutti, titini, tedeschi, cetnici e ustascia, si avventarono su quella capretta inerme, per smembrarla, dilaniarla e ucciderla. Pochi giorni dopo l'8 settembre, come le orde barbariche ai tempi di Roma, i partigiani scesero in Istria, e, in quei terribili giorni provammo l'assaggio di quello che poi con precisione scientifica fecero in seguito gli uomini del Maresciallo jugoslavo quando presero definitivo possesso della nostra terra. Il nostro esercito era allo sbando, il Re lontano e in fuga verso il sud dell'Italia. Eravamo alla mercé di tutti, difesi solo da quelli che storica- mente passarono per cattivi, ma che in quella situazione difesero l'italianità in Istria".
"Perché cattivi? E chi erano questi?" sovrappose con foga le domande Filippo.
"In una guerra è difficile classificare precisamente i buoni o i cattivi, e di solito chi vince colloca i perdenti tra i cattivi"
Dopo una pausa proseguì:
"Erano soldati italiani, i ragazzi della Decima Mas, che con coraggio cercarono di difendere l'italianità e la nostra terra dall'invasione, ma era come tentare di fermare il diluvio universale. In quei pochi mesi accadde di tutto, era iniziato il tempo del terrore, e con esso i primi massicci “infoibamenti”".
"Infoibamenti? E cioè?" chiese serio il ragazzo.
"Ancora oggi si parla poco di queste cose, quasi che le vicende della nostra terra, dovessero rimanere seppellite per sempre nell'oblio, cancellate, come mai esistite. Quando dopo pochi mesi i tedeschi si ripresero con poca fatica l'Istria, era autunno, e la popolazione li accolse quasi come liberatori, ma ci sbagliammo, anche loro avevano in progetto di annettersi la nostra terra nel “Adriatisches Kunsterland”, così a quel punto fummo abbandonati da Dio e dagli uomini al nostro destino".

Scese il silenzio, Marino doveva scegliere le giuste parole per illustrare al ragazzo i fatti storici più drammatici.
Guardò negli occhi il nipote e riprese la narrazione.
"Filippo, se tu prendessi ora un vocabolario in mano e cercassi la parola “foiba”, troveresti questa dizione “cavità carsica”, ma le foibe furono il sepolcro per tantissimi di noi".
Marino si alzò in piedi a scrutare l'orizzonte e continuò osservando
"Sarà il caso di procedere con ordine, - poi abbassando gli occhi disse - purtroppo ci ritorneremo più avanti su questo".
Prese una bottiglia di acqua e bevve.
Dopo essersi asciugato con il palmo della mano, proseguì.
Anche Nazario era in mezzo al caos, e fece quello che tantissimi militari allo sbando fecero. Gettò la divisa e ritornò a casa. Lo vidi arrivare a piedi in abiti borghesi, con una striminzita valigia, non era il guerriero con la divisa fiammante che ricordavo, ma averlo vicino a me era come toccare il cielo con un dito, papà accanto a me! Nonostante l'Europa in quei momenti fosse a ferro e fuoco, per me quel periodo fu bellissimo, ma come tutte le cose belle, anche questa durò poco. Vedevo però mio padre sempre più preoccupato, e ne aveva ben ragione. Infatti, un giorno salì fin su da noi un'auto, che si fermò proprio davanti a casa nostra. Quell'auto, come quella che accompagnò la mamma nell'ultimo viaggio, non era portatrice di buone notizie. Scesero tre uomini in divisa, quello che dal ruolo pareva il capo, era per un ragazzino come me, un essere enorme, forse alto quasi due metri e vestito di nero. Ricordo che sulla divisa e sulla visiera campeggiavano due teschi, che in controluce luccicavano come brillanti. Quell'omone aveva uno sguardo che incuteva paura, e, l'aspetto, come potrai capire tra poco, confermava pure la sua natura. Cercavano papà, lui uscì in cortile, e vedendoli sì accigliò. Il capo del gruppo parlò, con tono secco, duro “ Nazario, rimettiti la divisa! ”. Nazario, con tono gentile ma deciso, argomentò dicendo che non avrebbe più rivestito la divisa, che ormai era tutto finito, e che voleva rimanere a casa con la sua famiglia. Le miti parole di mio padre sortirono un effetto contrario rispetto a quello sperato. Il capo s'irrigidì e alzando la voce disse “Sei un traditore!”, poi le sue parole resero ancor più drammatica la situazione “Se resterai qui, comunque sarai preso dai tedeschi” disse glaciale e per dare maggiore enfasi all'ordine terminò serio “ Se non rivesti la divisa, ti ammazzo qui, sul muro del tugurio di Candusio, davanti a tuo figlio” indicando il muro a secco dietro di loro. Io ero terrorizzato, in quel preciso istante percepivo la tragicità della guerra. Iniziai a piangere aggrappandomi ai pantaloni di mio padre. Quell'uomo imponente avanzò una borsa verso papà, lui la prese. Tutti entrammo nell'angusta cucina, mentre Nazario salì al piano superiore per vestirsi. “Lei”, fino a quel momento era rimasta in silenzio, quasi a rendersi invisibile, dall'angolo della cucina mi guardò e disse “ Marino, restemo de novo da soli.”, ma il suo tono questa volta non trasudava odio, ma preoccupazione. Io mi rivolsi al capo chiedendo “Lo portate a Cittanova?”, ero ansioso di sapere il destino di mio padre.
“Non lo so, non ci sono ancora direttive.” rispose con aria marziale. Nazario poco dopo scese vestito in divisa, i tre lo presero e uscirono, io lo seguii, poi al momento della partenza, mio padre mi baciò. Io non smettevo di piangere. Papà, come per giustificarsi, mi disse con infinita dolcezza
“ Pensavo che saremmo rimasti finalmente insieme.”

 

30 secondi di pausa

(Dallagiacoma)

30 secondi di pausa
Qui interviene Roberto Maestri con La pelle di Malaparte

 

(Roberto Maestri)

 

re_IMG_9612

La pelle


Curzio Malaparte,  Edizioni Vallecchi


«L'esercito americano» disse il Principe di Candia «ha lo stesso odore dolce e tiepido delle donne bionde».
«Very kind of you» disse il Colonnello Jack Hamilton.
«È uno splendido esercito. È un onore e un piacere, per noi, essere stati vinti da un esercito simile».
«Siete davvero molto gentile» disse jack sorridendo.
«Siete sbarcati in Italia con molta cortesia» disse il Marchese Antonino Nunziante «prima di entrare in casa nostra avete bussato alla porta, come fanno tutte le persone bene educate. Se non aveste bussato, non vi avremmo aperto».
«A dire il vero, abbiamo bussato un po' troppo forte» disse Jack «così forte che tutta la casa è crollata».
«Questo non è che un trascurabile particolare» disse il Principe di Candia «l'importante è che abbiate bussato. Spero che non vi lagnerete del modo col quale vi abbiamo accolti».
«Non avremmo potuto desiderare ospiti più cortesi» disse jack «non ci rimane che chiedervi scusa di aver vinto la guerra».
«Sono certo che finirete per chiederci scusa» disse il Principe di Candia con quella sua aria innocente e ironica di vecchio signore napoletano.
«Non siamo i soli a dovervi chiedere scusa» disse jack «anche gli inglesi hanno vinto la guerra: ma non vi chiederanno mai scusa».
«Se gli inglesi» disse il Barone Romano Avezzana, che era stato Ambasciatore a Parigi e a Washington ed era rimasto fedele alle grandi tradizioni della diplomazia europea «si aspettano che noi chiediamo scusa a loro di aver perso la guerra, si sbagliano. La politica italiana è basata sul principio fondamentale che c'è sempre qualcun altro che perde la guerra per conto dell'Italia».
«Sarei curioso di sapere» disse Jack ridendo «chi ha perso, questa volta, la guerra per conto vostro».
«I russi, naturalmente» rispose il Principe di Candia.
«I russi?» esclamò Jack profondamente meravigliato. «E perché?»
«Qualche giorno fa» rispose il Principe di Candia «ero a pranzo dal Conte Sforza. C'era anche il Vice Commissario sovietico per gli Esteri, Wishinski. A un certo punto Wishinski raccontò di aver domandato a un ragazzo napoletano se sapeva chi avrebbe vinto la guerra».
«Gli inglesi e gli italiani», aveva risposto il ragazzo. «E perché?» «Perché gli inglesi sono cugini degli americani, e gli italiani son cugini dei francesi». «E dei russi, che ne pensi? Credi che vinceranno la guerra anche loro?» aveva domandato Wishinski al ragazzo. «Eh no, i russi la perderanno» aveva risposto il ragazzo. «E perché?» «Perché i russi, poveretti, son cugini dei tedeschi».

 

(Dallagiacoma)
30 secondi di pausa

 



(Antonio Della Rocca)

 

 

re_IMG_9615

 

 

Non riesco a mettere tutto il testo letto da Antonio ma almeno la canzone ed un paio di cartoline le voglio mettere lo stesso per il significato profondo...

 

Cartolina n. 1 6.8.1915 prof. Ettore Gregoretti


LAVEZZARI Giuseppe Giulio


 

Nato a Vigevano il 12 maggio 1849 milita nei garibaldini nella III Guerra d'Indipendenza ed è presente alla battaglia di Bezzecca dove viene ferito da un colpo di baionetta. Terminata l'avventura militare per la quale era stato decorato, emigra dapprima in Francia dove gestisce un piccolo albergo e poi a Londra dove contrae matrimonio ed ha un figlio. Ormai anziano, ma sempre attivo apprende, a Londra, dove si occupava della vendita di giocattoli, dell'entrata in guerra dell'Italia e parte immediatamente per arruolarsi all'età di 66 anni. Dapprima è accolto con una certa incredulità, poi vista la sua tenacia e i suoi trascorsi (si era presentato all'ufficio reclutamento in camicia rossa e decorazioni guadagnate sul campo) viene arruolato nel 35° fanteria. Impiegato, sempre come volontario, per il rischioso incarico di recidere i reticolati, il 15 luglio 1915 fece parte di un attacco a un fortino nemico sul monte Podgora. Al comando di attacco balzò fuori per primo dalla trincea incitando i compagni a seguirlo e, sbottonando la giubba grigioverde, mostrò al nemico la camicia rossa che indossava sotto. Essendo alla testa della prima ondata d'assalto, il fuoco nemico si concentrò su di lui e cadde, più volte colpito, urlando ai compagni il grido di “avanti Savoia”. Per l'intenso fuoco dell'artiglieria nemica non fu possibile ricuperarne il corpo, per diversi giorni, dalle postazioni italiane, fu visibile la sua camicia rossa.


La canzone di Lavezzari


Il 24 maggio,
la notte della guerra,
Giuseppe Garibaldi
uscì di sottoterra.


E andò da Lavezzari,
che si beveva il vino;
gli disse: «Lavezzari,
vecchio garibaldino,


Lavezzari, vecchio fante,
è scoppiata un'altra guerra,
ma io non posso andarci:
perché sono sottoterra.


Camerata di Bezzecca,
mio vecchio portabandiera,
va' te sul Podgora,
e porta la mia bandiera!»


E allora Lavezzari
senza il becco di un quattrino
- non aveva che la camicia
e due soldi per il vino –


si prese la camicia,
dimenticò gli affanni,
e salì nella tradotta
come uno di vent'anni.


E il 19 luglio
arrivò sulla trincera,
si levò la giubba verde,
mostrò la sua bandiera.


E disse ai volontari
romagnoli e triestini:
«avanti alla baionetta,
e fate i garibaldini!»


E in testa a tutti i fanti
uscì dalla trincera
con la camicia rossa
che era la sua bandiera.


E i fanti della Giulia,
di Romagna e del Trentino
lo seguirono all'assalto,
e occuparono il fortino.


Ma lui non era pago,
oltrepassò il fortino,
e mosse verso il Peuma
e il Monte Sabotino.


Quattro portaferiti,
passata la bufera,
uscirono a cercare
il corpo e la bandiera.


Finalmente con la luna,
che uscì dal Sabotino,
essi videro tra i massi,
il vecchio garibaldino.


Egli stava sull'attenti
davanti al Generale,
che gli appuntava al braccio
i galloni da caporale.


E i morti dell'Isonzo,
fanti, honved, graniciari,
presentavano le armi
al vecchio Lavezzari.


Garibaldi dié il piedarme,
lo baciò due volte in fronte,
poi sparirono con la luna
che discese dietro il monte.


Giulio Camber Barni



Cartolina n. 4 18.8.1915 Einjaehriger Freiwilliger Hektor Gregoretti




la buffa


Il general Mangino
chiamò la truppa nera
ma i morti della "Bressa"
gan' salvaro la trincea


Bim, bum, bom,
al rombo del cannon


La fanteria l'è buffa
l'è bassa di statura
ma quando va all'assalto
anche i honved gan'paura


Bim, bum, bom,
al rombo del cannon


Non sono bersagliere
non son neppure alpin
son come il Re d'Italia
io sono fantaccin


Bim, bum, bom
al rombo del cannon



MYOSOTIS


A Kolovrat


in questo bel giorno di sole


i nontiscordardime


hanno il color blu


degli occhi delle ragazze.


Ma nei prati


ne vedo alcuni


di un vago color rosa


e mi domando


se si non tratti di una traccia


del sangue


versato cent'anni fa


nella Grande Guerra.


---


In Kolovrat


on a nice, sunny day


forget-me-nots


are of the same blue


of girls' eyes.
But on the meadows


I can see some of them


being of a tone of rose


and I ask myself


if it isn't a trace


of the blood


shed a century ago


in the Big War.


---


À Kolovrat


dans une belle journée ensoleillée


les myosotis


ont la même couleur bleu


des yeux des filles.


Mais dans les prés


j'en vois quelqu'un


qui est d'une couleur rose


et je me demande


s'il ne s'agit pas d'une trace


du sang


versé il y a cent ans


dans la Grande Guerre.


Caporetto/Kobarid 10.5.2014 Antonio G. Della Rocca


 

Qui interviene di nuovo Robert Mitterrutzner col didgeridoo

 

re_IMG_9490

 



(Mauro Tonino)

 

 

re_IMG_9567

 

Il rastrellamento


 

Marino con aria stanca riprese la narrazione dal punto esatto, dove aveva interrotto. Il gracchiare dell'altoparlante scandiva l'ordine perentorio per tutti gli uomini di “consegnarsi immediatamente ai tedeschi e assembrarsi davanti alla chiesa”, mentre donne e bambini di “rimanere chiusi in casa”.
Nazario usci dal cespuglio e si diresse verso la chiesa. Io, d'importante a questo mondo, avevo solo lui, così lo seguii. Davanti alla chiesa erano state già radunate quaranta o cinquanta persone, papà fu messo insieme con loro. Sopra di loro, a ogni finestra della sacrestia c'era un soldato tedesco armato che controllava la piazza. Fui allontanato contro la mia volontà, non volevo abbandonare Nazario, così senza essere notato mi buttai giù nel fosso, proprio dietro la casa di Candusio, pronto a correre verso mio padre qualora fosse stato preso. Io stavo accovacciato nel fosso, con la sola punta del naso fuori, seminascosto tra l'erba, da lì potevo osservare tutta la scena, la distanza che mi separava dall'area teatro dei fatti che ora andrò a narrare, era circa cinquanta metri. In mezzo a tutti quegli uomini lo squadrista dirigeva con piglio autoritario tutte le operazioni. Quell'uomo, ora era stato assurto al ruolo di supremo giudice per dispensare vita o morte a persone che aveva visto nascere, crescere, invecchiare, e delle quali, in un paese piccolo come Villanova, conosceva tutto. Dal fosso, potevo sentire distintamente i colloqui tra le sventurate vittime e i carnefici. Quando mio padre venne scartato, tirai un sospiro di sollievo, ma rimasi accovacciato immobile nel fosso, attento a quanto accadeva. La scelta degli uomini da sacrificare spettò al nostro compaesano, operazione che effettuò con puntiglio e diligenza. Doveva scegliere diciannove martiri, e così fece. Distinzioni di età, di vissuto, di ceto, non valsero a nulla. Il fato, seguendo un misterioso disegno, aveva già scelto, in tal contesto pure un giovane militare appena giunto in licenza a casa, incontrò il destino lontano dal fronte, proprio nella terra che gli aveva dato i natali, e lì, ancora con la divisa addosso, fu raggruppato come un agnello sacrificale, agli altri diciotto martiri. A un certo punto si rivolse verso Elio, uno dei tre fratelli di “Lei”, dicendogli “ Fiozzo mio se in tre, uno dei voi tre devi andar! ”
Elio era poco più che ragazzo, e a quella sentenza di morte rispose “: Santolo mi no iero mai partigian! ” Un duro “Rauss!” dell'interprete tedesco spense le tenui speranze del giovane. Lo portarono dietro la chiesa, e lì iniziò la mattanza. Li fucilavano tre per volta. Sentivo un tedesco urlare “ avanti, avanti! ” e poi i colpi. Il mitra tedesco, appoggiato su le assi del portone ormai scardinato e dissestato, vomitava implacabile terrore e morte. Un compaesano, credo fosse Pio, cercò di fuggire in mezzo ai meleti ma loro, freddi e spietati, lo mitragliarono alla schiena, quasi come in una caccia alla lepre. Tutti quegli uomini trovarono la morte lì, su quel prato dietro la chiesa. Anche il nostro vicino di casa cadde insieme agli altri compaesani. Gli angeli della morte, non paghi, poiché nessuno doveva sopravvivere, finirono tutti a uno a uno con un colpo di pistola alla testa. Ricordo ancora l'immagine di quella pistola luccicante tra le mani del tedesco, e al botto di ogni colpo sparato, io sobbalzavo cercando di appiattirmi sempre più nel fosso. Conclusa la mattanza, i soldati salirono sui camion e se ne andarono via. Il quadro era desolante, dal mio nascondiglio immaginavo quegli uomini che fino a pochi attimi prima erano persone vitali, allegre, nel pieno della vita, ora il soffio implacabile e malvagio della morte le aveva portate via per sempre. C'erano solo corpi inanimati, quei poveri compaesani vittime innocenti di quella follia collettiva che assume il nome di guerra, e che io conoscevo uno per uno, con loro ci avevo parlato, scherzato, ora erano lì immobili. Tutto divenne immobile in quella quiete mortale. Solo dopo mezzora, dopo essersi accertate che i soldati non c'erano più, timidamente le donne iniziarono a uscire dalle case. E di lì a poco i pianti e le urla di disperazione saturarono l'ambiente, come lugubri e funerei canti accompagnatori delle anime di quegli sventurati verso ultimo viaggio. Uscirono poi anche gli uomini sopravvissuti, tutti davanti a quei poveri corpi, immobili e silenti a guardare quelle membra martoriate, icone e immagini della morte che li aveva appena lambiti, ma alla fine lasciati in vita a testimoniare lo scempio perpetrato contro civili inermi. L'umana pietas prese il sopravvento, così gli uomini superstiti presero a scavare per dare una minima sepoltura agli amici, parenti, vicini di casa. C'era poca terra, quasi che quel luogo non volesse ricevere il sangue degli innocenti. Dovettero allora ricorrere all'esplosivo di mina per sventrare le rocce e creare un giaciglio nella terra per quei diciannove figli. Ricordo ancora i corpi avvolti in un lenzuolo, ultimo sudario prima di esser sotterrati e un foglio di carta appuntato sopra con il nome inciso. Conclusa quella modesta cerimonia funebre, mio padre mi prese in braccio e mi riportò a casa. Paradossalmente, nonostante la tragicità del momento io ero contento, felice del fatto che mio padre si era salvato, ma alla luce di quello che accadde poi, gli avrei augurato di diventare il ventesimo martire, per non patire le pene dell'inferno in terra, viste le torture e sofferenze perpetrate poi sul suo povero corpo per giorni e giorni dagli implacabili carnefici.

 

(Dallagiacoma)

30 secondi di pausa e mi accompagna il didgeridoo

 

re_IMG_9569

 

(Diaolin)

pöra mòrt…


pöra mòrt


la töl dré tut le mesèrie
e ogni ratàra ‘n te ‘l prosàch
dele volte fòrsi ‘l par la te tampìnia
dessiguàl, da lumaciàra, strozegàndose
dré a i àrfi de le gènt, a bòtaciuch,
pöra mòrt


la còn törse dré qoei bòni
come qoei che i ghe fa ‘l vèrs
no la lédra ‘l camp da ‘l erba
la ‘mpienìss ‘l benèl de àneme
e dele volte resta ‘n bùss
pöra mòrt


vorìa dirghe: làghei chi
tuti qoéi che i fa del mal
che ghe rèstia ‘l desideri
de ruàrla la sò storia
senza che ‘l suzédia mai


 

povera morte

povera morte | si porta dietro tutte le miserie | e ogni carabattola nello zaino | alle volte sembra quasi che ti insegua | mano a mano, come lumaca, trascinandosi | dietro il respiro della gente, casualmente, | povera morte | deve portarsi dietro quelli buoni | come quelli che la canzonano | non ripulisce il campo dall'erba | lei riempie il cesto di anime | e alle volte lascia un vuoto | povera morte | vorrei dirle: lasciali qui | tutti quelli che fanno del male | ché resti loro il desiderio | di finirla, quella storia, | senza che accada mai

(Dallagiacoma)

 



 

(Mauro Tonino)

 

 

re_IMG_9601


La foiba di Vines


 

Con cautela Luciano s'inoltrò per una ventina di metri tra le sterpaglie fino a fermarsi, si volse lentamente indicando con il braccio teso la foiba. Il sole ormai radente, e prossimo e morire, tagliava come un rasoio le ombre, e impietosamente colpiva direttamente gli occhi di quell'improbabile terzetto. Erano arrivati alla foiba quasi a tempo scaduto, ancora pochi minuti e sarebbe stato impossibile inoltrarsi in quella boscaglia incolta. Nazario li aveva presi per mano e portati proprio lì, a rendergli omaggio in un ultimo saluto liberatore, affinché da quel momento la sua anima potesse librarsi e finalmente raggiungere un luogo sereno.
Ora, davanti a loro si stagliava la foiba di Vines, quasi semisconosciuta nelle citazione storiche dei libri di maniera, ma tristemente famosa tra gli esuli. Marino e Filippo si avvicinarono con prudenza ai bordi, rovi e sterpi facevano da cornice fin sul bordo, in mezzo si stagliava la forra. Pareva che quel buco nero, del quale non s'intravvedeva la fine, inghiottisse pure la luce, e la sensazione trasmessa era quella di due enormi fauci, ancora lì ad attendere l'arrivo dei predestinati al sacrificio. La foiba era delimitata con un cavo metallico, che fungeva da simbolico parapetto, mentre in parte, stesa sopra dei rovi, messa lì come un sudario a testimoniare il sacrificio, c'era una bandiera italiana, martoriata anch'essa dalle intemperie, ma ben di più dagli eventi bellici, che la violarono a più riprese. Quel pezzo di stoffa, messo lì da qualche animo pietoso, ma che non vuol dimenticare, fu il simbolo e la croce, sotto la quale, come i martiri, furono immolati tanti uomini e donne, rei di essere solamente italiani. Quel luogo non aveva nulla di umano, e a conferma di quanto la natura stessa riverberava, Luciano con voce bassa e roca parlò
"E' molto profonda, dicono più di cento metri".
Cadde di nuovo il silenzio, sempre poi rotto dalle parole di Luciano che come un tragico corrispondente di guerra narra i drammatici eventi che i suoi occhi hanno visto e fissato nei ricordi in modo indelebile
"Vidi arrivare giù un gruppo, c'erano diciassette sventurati, legati cinque a cinque, che vennero fatti incamminare, verso qui".
Luciano interruppe il racconto, tutti e tre gli uomini avevano lo sguardo fisso verso quell'inghiottitoio nero. Passarono alcuni minuti in silenzio, Filippo volse lo sguardo verso il nonno, in quel momento non rivedeva l'uomo vigoroso con la schiena dritta che aveva sempre intravisto, davanti a lui osservava una persona invecchiata, curva, il viso bianco di un candore quasi innaturale, e i muscoli del viso tesi.
Luciano riprese a fatica l'illustrazione della tragica testimonianza
"Non ebbi il coraggio di venire fin qui in quei giorni"
poi, girando il capo e indicando con la mano la casa da dove erano venuti, disse
"Da là, ancora dopo diversi giorni, si sentiva provenire dei lamenti dalla foiba".
Abbassò lo sguardo, e con un tono di voce greve proseguì la tragica cronaca
"L'umana perversione non ha limiti, a quegli uomini torturati nell'animo e nel corpo, veniva fatta balenare l'illusione di avere salva la vita se avessero saltato indenni la foiba, ma per quei pochi che riuscivano a farlo, li aspettava un colpo di fucile alla schiena. Per gli altri invece, legati l'un l'altro col filo di ferro in una tragica catena umana, spettava una sorte ancor peggiore, colpito il primo con un colpo di pistola alla nuca, questi trascinava con sé i vivi nell'orrido. In quei lunghissimi giorni di follia, la foiba non risparmiava nessuno, se essere italiano, era diventato un sicuro titolo per scendere negli inferi attraverso quelle terribili forre, l'angelo nero con la falce colpiva per vendetta anche chi, pur non soggetto alla “pulizia etnica”, aveva in passato avuto a che dire, anche per futili motivi, con qualcuno dei carnefici, generosi dispensatori di morte".
Quelle pesanti e tragiche parole imposero il silenzio, poi, dopo aver preso fiato e coraggio, Luciano completò la narrazione
"Dopo poco tempo vennero qua con un camion pieno di calce e la versarono dentro".
Una folata di vento mosse la vegetazione, quasi a terminare l'orazione funebre, muovendo legger-mente la bandiera, quasi che questa fosse viva. Marino si sporse, Filippo lo osservò, nelle mani del nonno apparve come per incanto il mazzo di garofani bianchi acquistato a Cittanova, ma del quale il ragazzo non si era accorto che fosse stato portato appresso.
Marino lanciò con decisione il mazzo di fiori.
Il fascio di garofani descrisse in aria un bell'arco, osservato da tutti e tre gli uomini, per poi scendere giù nel mezzo del buco nero. Marino non possedeva la matematica certezza che Nazario riposasse proprio lì, ma quel gesto avrebbe simbolicamente espanso l'ultimo saluto a suo padre in qualunque luogo questi giacesse.
Restarono immobili in silenzio per diversi minuti, poi Marino si mosse, sporgendosi leggermente oltre, quasi a voler richiamare lo spirito di suo padre. Poi si raddrizzò, rigido, fermo, in un simbolico saluto.
Il tempo pareva essersi fermato, solo il vento muovendo leggermente i capelli dell'anziano, confermava che tutto era vivo.

pausa di 1 minuto

(Dallagiacoma)

Mia breve considerazione su questo evento e poi lascio andare avanti Mauro a raccontare l'epilogo della storia
(ma quando finirà questa guerra interiore?)

 (Mauro Tonino)

Ritorno a casa


 

La barca, nonostante l'ancoraggio disposto da Marino, a dir suo sicuro, iniziò soffrire le raffiche che stavano aumentando d'intensità, tanto che iniziò a muoversi. Sul momento Filippo non diede peso alla cosa, ritenendola un fatto normale, e gli ci volle un po' per capire che il vento stava invece sospingendo la barca verso dei galleggianti, che non erano altro dei bidoni posti lì, contro ogni buon gusto, solo per raccogliere i mitili. Sull'altro lato della barca, con le gambe fuori bordo, Marino era intento in ben altre faccende, concentrato nel cercare di far abboccare un pesce che pareva riottoso a farsi mettere in padella.
"Nonno, la barca va alla deriva".
"Impossibile!" fu la lapidaria risposta.
"Guarda!" ribadì con insistenza Filippo, quasi urlando.
La determinazione del ragazzo sortì l'effetto di catturare l'attenzione del comandante. Con solo colpo d'occhio, Marino intuì il pericolo
"Porco mondo, le pedocere !!"
Con inaspettata agilità risalì e come un fulmine si diresse ai comandi, cercando di accendere il motore. Questa volta, come se un folletto dispettoso ci avesse messo le mani, ostinatamente si rifiutava di ripartire. Ormai la collisione era inevitabile, infatti, Filippo aggrappato a una sartia, attendeva il botto, mentre Marino si accaniva sul motore che non dava alcun segno di vita. Sentì quasi in contemporanea, il botto e il motore che si accendeva e dopo qualche secondo si spegneva con un rumore sordo. Marino riprovò più volte ma il motore pareva defunto. A quel punto il comandante osservò la situazione stimando i danni, e solennemente, ma con anche un po' di vergogna, si pronunciò
"Ci siamo impigliati nelle pedocere, l'elica si è avvolta nel cavo che le tiene ancorate al fondo!"
e dopo una pausa, profferì, ma con minore enfasi
"Che figura di merda, proprio davanti a casa!"
"E adesso che facciamo nonno?".
"Nulla!" rispose sconfortato Marino.
"Come nulla!".
"Noi non possiamo fare nulla, dobbiamo chiamare tuo padre, che venga ad aiutarci".
"Va bene, dammi il cellulare che lo chiamo io"
disse Filippo, già più tranquillo.
"Non ho il cellulare con me, l'ho lasciato a casa"
rispose sconfortato l'anziano marinaio.
"E adesso cosa facciamo?" chiese preoccupato il ragazzo.

"Aspettiamo, aspettiamo che passi qualcuno, mica sparo un razzo per far accorrere quelli della Capitaneria di Porto o li chiamo alla radio, così domani ci troveremo dipinti sul Il Piccolo, no no, questo mai, aspettiamo!".
Dopo aver esternato il proprio pensiero, Marino si sedette sconfortato nel pozzetto.
Filippo lo raggiunse, si sedette vicino
"Va bene nonno, aspetteremo".
Il vento intanto era salito ancora d'intensità, portando aria fredda, mentre il mare sollecitato dalle raffiche improvvise, stava montando.
"Con questo tempo vedrai che tra poco qualche barca rientrerà".
"Si nonno, lo penso anch'io"
rispose Filippo, replicando al nonno, giusto per tranquillizzare lui, giovane mozzo, l'esperto marinaio.
"Nonno, in questi giorni sono stato bene con te".
"Anch'io" rispose l'anziano arruffando i capelli al ragazzo.
"Grazie di avermi fatto partecipe della tua storia e dei tuoi ricordi"
"Era giusto che tu sapessi, pensa … alcune cose non le avevo raccontate neppure a tuo padre".
In silenzio, seduti con le gambe fuori bordo, i due compagni di viaggio osservavano la linea tra cielo e terra verso la costa istriana. Dopo una decina di minuti, apparve all'orizzonte una minuscola imbarcazione, che man mano si avvicinava alla costa, confermava che la rotta era sulla linea di stazionamento dei nostri naufraghi.

(Dallagiacoma)

 Pausa di un minuto in silenzio poi continua



(Mauro Tonino)

 

re_IMG_9546



Ritorno a casa


 

Marino, con i capelli scompigliati dal vento, tanto da sembrare un istrice, con una mano sul timone e l'altra sulla spalla del nipote, disse
"Filippo, prendi tu il timone".
"Io nonno?" chiese un po' preoccupato il ragazzo.
"Si certo, sei partito per questo viaggio mozzo, ma ora rientri marinaio!".
Marino lasciò così i comandi al nipote, poi si diresse verso prua, per aggrapparsi a una sartia e scrutare l'orizzonte. Filippo, attento a manovrare, manteneva in rotta l'imbarcazione senza sbavature, nonostante il mare sempre più increspato. Marino, non aveva sbagliato ad affidare il timone a Filippo, questi seppur in tensione come una corda di violino, sapeva il da farsi, infatti, entrò nel canale del Villaggio con grande sicurezza. Passarono davanti a Mario, che essendo a bordo di una barca a motore più veloce era rientrato prima di loro.
"Grazie Mario!" gridò dalla barca Marino, questi rispose
"Figurite, spero solo che no te dovessi far lo stesso ti con mi un dì!"
poi salutò con il braccio, Marino fece lo stesso, mentre Filippo, nemmeno girò lo sguardo, tanto era attento alle manovre. Con perizia ridusse la velocità nell'approssimarsi dell'approdo. Sulla sponda, proprio di fronte a loro, stazionava invece Daniele, solo e intento ad asciugarsi i capelli con un asciugamano. S'irrigidì nel vedere Filippo alle manovre, non se lo sarebbe aspettato. La preoccupazione svanì presto, visto che Filippo, con una manovra perfetta accostò la barca al pontile. Mentre era lì, ancora immobile, Daniele si sentì apostrofare da Marino, forse per esternare una piccola rivincita e smorzare la sottomissione psicologica per l'infortunio e l'onta appena subita
"Cossa te fa come un bacalà, ciapa la cima!".
Quasi colto alla sprovvista, Daniele prese la cima e con una gassa d'amante l'assicurò alla bitta. Mentre assicurava anche la seconda cima, Daniele si mise a osservare i due marinai. Ormeggiata l'imbarcazione, iniziarono quindi i lavori di sistemazione, trasbordo a terra delle poche vivande rimaste a bordo, e quant'altro i marinai si erano portati dietro per il viaggio.
Daniele si mise a osservare i due.
Seppur fossero separati da più di una generazione, notò che c'era qualcosa di strano in loro, qualcosa di nuovo, come se quel viaggio avesse reso più intimo e forte il loro rapporto. Gli pareva quasi che si fossero trasformati, Filippo dava l'impressione di essere maturato, cresciuto, non più un ragazzo, ma un giovane uomo. Osservando bene il padre, considerò che anche Marino fosse diverso, trovava ora il suo sguardo sereno, lo sguardo di un uomo in pace. S'interrogò incuriosito su che cosa fosse accaduto durante quel viaggio, forse non glielo avrebbero detto mai e sarebbe rimasto un segreto tra loro due, o chissà, magari un giorno lo avrebbero fatto partecipe dell'espe-rienza vissuta. Marino si diresse verso la casetta di legno, pochi metri quadri che fungevano da magazzino, dispensa, rifugio nelle brutte giornate, il suo regno, e di fatto prima casa dai giorni della pensione. Ne uscì con due birre e una coca cola, che passò ai due consanguinei. Dopo aver gustato tutta la birra, abbracciò figlio e nipote. Lì, tutti e tre uniti, in pace, ognuno a sentire la vicinanza dell'altro, accompagnati solo dal pigro sciabordio dell'acqua del canale mossa dalla marea montante. Tre generazioni, tre mondi, tre uomini, legati dal sangue e dalla storia, figli del passato, ma saldamente ancorati al presente e proiettati verso il futuro.

(Dallagiacoma)

 



 

(Diaolin)

 

 

re_IMG_9551

 


VI


 

Fucile Mannlicher - Carcano modello 1891 calibro millimetri 6,5 per 52
a ripetizione manuale con otturatore girevole e scorrevole.
Serbatoio con pacchetto Mannlicher da sei colpi. Lunghezza totale millimetri 1.280
Lunghezza della canna millimetri 770. Peso chilogrammi 3,800. Mirino anteriore a cresta; mirino posteriore a quadrante con zoccolo graduato fino a 2000 metri.
Velocità alla bocca 700 metri al secondo.


Vedi, ho imparato la poesia, e bene,
ma solo perché mi toccava.
Girano voci nel reggimento
che le lezioni siano finite;
che presto dovremo andare.
Vorrei dirti di star tranquilla
che tra poco sarà finita
e l'austriaco non sa sparare:
a Trento per primavera
e Trieste ha già pronte le bandiere.
Marta, bugie non te ne so raccontare;
tu sei quella che ha studiato.
Io ho solo paura
per me, per te e per le bambine.


(da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler)


Io ho solo paura per me, per te e per le bambine!
Vorrei fermarmi un attimo su questo concetto: come mai la frase di prima
“Tutti dicono che dura poco, un paio di settimane e poi e poi è finita. E allora tanto vale andare. “
perde il suo potere ipnotico ed assume un valore retorico solo nel momento della percezione del suo intrinseco dramma?
Perché non pensare alla guerra come ad una soluzione impossibile invece che, a volte, all'unica strada possibile?

 

(Dallagiacoma)

 

re_IMG_9632

 

(Robert Mitterrutzner)


CERIDWEN'S KESSEL


Ich trank den Saft
Der in dem Kessel war,
Den Ceridwen
Am Feuer hielt.


Ich war ein Stein, der vor Hitze glueht.
Ich war ein Fels, in der Brandung des Meeres.
Ich war der Boden, auf dem der Weizen waechst.
Ich war das Fundament, auf dem man Haeuser baut.
Ich war der Stein, mit dem man Strassen baut.
Ich war die Strasse, auf der, der Wagen rollt.


Ich trank den Saft
Der in dem Kessel war,
Den Ceridwen
Am Feuer hielt.


Und dann war ich der, der selber Steine warf
Um im Brunnen den dumpfen Ton zu hoeren, um Ruhende zu stoeren.
Ich war der Stein, der auf meinem Herzen lag
Und dann war ich der, der selbst gesteinigt ward.
Ich war die Angst, die keine Sicherheit mehr bot.
Ich war die Wut, der Zorn und der Neid,
Der mich nicht mehr wachsen und gedeihen liess.


Ich trank den Saft
Der in dem Kessel war,
Den Ceridwen
Am Feuer hielt.


Und jetzt geb ich's dir zurueck,
Damit sich's neu vermischt
In dem Kessel
Den Ceridwen am Feuer haelt.


(traduzione)




IL CALDERONE DI CERIDWEN


Ho bevuto il succo
che bolliva nel calderone,
che Ceridwen
teneva sul fuoco.


Ero una pietra, incandescente per il calore.
Ero una roccia, nella risacca del mare.
Ero il terreno, su cui cresce il grano.
Ero le fondamenta, su cui si costruiscono le case.
Ero la pietra, con cui si costruiscono le strade.
Ero la strada, su cui passano i carri.


Ho bevuto il succo
che era nel calderone
che Ceridwen
teneva sul fuoco.


E poi ero io stesso colui che lanciava pietre
per sentirne il suono ovattato nella fontana,
per disturbare i dormienti.
Ero la pietra, che giaceva sul mio cuore,
e poi ero io stesso quello che veniva lapidato.
Ero la paura, che non offriva più alcuna sicurezza.
Ero l'angoscia, la rabbia e l'invidia,
che non mi lasciava crescere e prosperare.


Ho bevuto il succo
che era nel calderone
che Ceridwen
teneva sul fuoco.


Ed ora te lo darò indietro,
affinché si mischi ancora
nel calderone
che Ceridwen tiene sul fuoco.


 

La trasformazione

Siamo scesi su questo pianeta per imparare, per vivere, per amare, nelle lezioni si rischia di non capire la lezione e c'è bisogno di ripeterla, nel vivere veramente si rischia la vita e nell'amore si rischia tutto, nel stare al momento si rischia di non esserlo. Una magia ti può riuscire e anche no, quando le cose vanno bene, di solito si è contenti, quando invece non vanno bene, ci si riprova,
per me delle persone che incontro, mi fanno da specchio, e se sono come uno specchio vuol dire che hanno dentro una cosa con la quale vado in risonanza, perché c'è anche in me quella cosa. Il rifiuto è sempre una cosa che non si vuol vedere, che si vuol mettere all'oscuro e si cerca di nascondere.
Per me l'amore è tutto, lo vedo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni attimo, l'amore sta sopra ogni cosa e l'amore lo puoi solo dare e ricevere, è impossibile possederlo. L'amore include tutto ed esclude niente, lo si deve trovare in se stessi, per se stessi e per gli altri.
Anche la morte è amore!
L'unica libertà che hai, è la libertà di scegliere e quando hai scelto non sei più libero, perche ogni scelta è anche una identificazione, quindi, ti rimane soltanto “VIVERE” con tutti i suoi aspetti.

 

(Dallagiacoma)

 



 

(Diaolin)

 

re_IMG_9483


X


Mi hanno detto sette
e ho saputo che restavo vivo;
se era dieci ero morto.
Marta, la chiamano per questo decimazione.
Ci hanno accoppati, uno su dieci.
I nostri hanno fucilato i nostri.
Li hanno legati ad un palo, come le bestie,
e ta pum, ta pum, ta pum.
Viltà davanti al nemico, ha detto il generale
con la faccia grassa e rosa e gli occhialetti d' oro
che il nemico non ha mai visto.
Siamo usciti: “Avanti Savoia”.
Sparavano con le mitragliatrici, scoppiavano le bombe,
e i reticolati tutti in piedi.
E' morto il Capitano; erano già morti i tenenti:
il mio subito subito, appena fuori dal nostro buco.
Non c'era più nessuno a dare ordini:
solo confusione e fumo e morti dappertutto
Qualcuno a cominciato a tornare indietro:
andare avanti era solo morire.
Ci siamo guardati quella sera:
mancavamo più di quelli che siamo rimasti.
Il giorno dopo si pensava di andare in retrovia,
invece ci hanno processato.
Ci ha fatto un bel discorso il generale;
Io, però, davanti a lui non ho tremato.
Sono stato a piè fermo, come diceva lui, con il petto in fuori.
Davanti al nemico.


(da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler)


Davanti al nemico...
Davanti al nemico...
Davanti al nemico...
mi verrebbe la voglia di dire una parolaccia


Dallagiacoma (ultima volta)


(Diaolin)


Il nemico: noi stessi!




 

re_IMG_9638

Ripartiamo per Malga Sass, ci fermeremo altre due volte sul sentiero, negli stessi posti di prima. Stavolta non vi chiederò di tacere ma lasciatevi andare a qualsiasi cosa vi venga in mente... C'è il megafono a disposizione di chi vorrà dire qualcosa. Durante la discesa vi chiedo di raccogliere le bandiere ed i pali, le bandiere potete portarle con voi mentre i pali vi chiedo di lasciarli in malga.

Ci fermeremo ancora due volte in discesa per ascoltare una lettera a Pasolini ed una mia brevissima poesia.

Prima però vorrei ricordare un amico scomparso da poco, una persona che ha fatto della libertà e dell'arte il disegno della sua vita e ha lasciato un vuoto profondo nel mio cuore.
Ultimamente mi aveva detto: “Caro Diaolin, gò drìo la porta de casa el tò Saor del vènt così me 'l lézo ogni volta che vago fòra de casa... me piaserìa vegnìr su anca mi ma le gambe... no le obedisse pù”.
Beh, lui era venuto diverse volte agli eventi che ho fatto ma stavolta ho deciso che lo avrei portato io con i miei pensieri.

Ciao Franco e sìene en paradìss come che 'l vorìsti ti!

 

‘l saór del vènt…


 

l'às mai sentù ‘l saór del vènt de istà
qoànche ‘l te vìs'cia i làori screpolàdi
e ‘l lassa dent ‘mprendù, ‘n la boca sùta,
profumi de fiorùm che è giust seslà?
g'às mai dat òdia al fis'cio berechìn
che ‘l porta ‘n gàida ciòche che sdindòna
par gatàr dent, careze al cör de mama,
sgninfe ‘nzispade de ‘n putàt rabioš?
l'às mai sentù ‘l saór del vènt smanios
a svoltolàr le nùgole pu negre
pavèla su la pèl che par che piàngïa
e i òssi che fà s'ciòchi ‘l pàr bolìfe?
l'às mai sentù ‘l saór del vènt de aotùn
col mosto ancor sul bói, castègne sule brase,
su l'us de cà co i vèci a contàr storie
e ‘n cagn rebùf che sbàia a chiche passa?
ma ti, l'às mai scoltà ‘l remór del vènt
a córer via ‘n trà ‘l pòrtec', gió ‘n le fràone
qoel zìfol che te dis che ès ancor vìo
e ‘l tase cèt a ‘l cant de le cigaie?
ma ti, l'àš mai sentù ‘l saór del vènt
tastando pian en fior pogià a la lengua?
lasando che i pensieri i se smamìšia
e qoel profumo fòrt te fés sgolàr
ma ti, l'às mai sagià ‘l saór del vènt?


il sapore del vento
hai mai sentito il sapore del vento d'estate | quando ti sferza le labbra screpolate | e lascia dentro intriso, nella bocca asciutta | profumi di fiorume appena tagliato? | hai mai dato ascolto al fischio birichino | che porta in grembo campane che suonano | per trovare dentro, carezze al cuore di mamma | pianti di stizza di un bambino arrabbiato? | hai mai sentito il sapore del vento smanioso | che rivolta le nuvole più nere | falèna sulla pella madida che sembra piangere | e le ossa che fanno schiocchi che sembrano scintille? | l'hai mai sentito il sapore del vento autunnale | con il mosto che bolle ancora, castagne sulle braci | sull'uscio di casa con i vecchi che raccontano storie | ed un cane dal pelo ispido che abbaia a chi passa? | ma tu l'hai mai ascoltto il rumore del vento | che corre in mezzo al porticato, in mezzo ai viottoli | quel fischio che ti dice che sei vivo | e tace silenzioso al canto delle cicale? | ma tu, l'hai mai sentito il sapore del vento | assaggiando piano un fiore appoggiato alla lingua | lasciando che i pensieri sbiadiscano | e quel profumo intenso ti faccia volare? | ma tu l'hai mai assaggiato il sapore del vento?
Scendiamo...

 

 

re_IMG_9655



Prima tappa in discesa

(Mauro Tonino)

Letare a Pieripauli
(versione in friulano)


Ti scrif omp, e ti clami par non, ti clami Pieripauli, parceche tu ses nasut a Bologne, e come un mul ustinat, e cun braure, tu tabais Furlan, no invesit no, ogni poc si vergongnin di doprà le marilenghe. Ti tabai e ti scrif al prisint, e non sai nacje se o soi el prin che lu fas, ma chist poc al impuarte. Scrivi a un muart, chel cà alè mat al disarà qualchidun, parceche tu ses muart el doi di novembre dal milnunfcent e settantecinc.
Tu vevis une preocupazion, che cun umiltat e pudor une dì tu as tirat fur : “Iò e Calvino o rischin di sedi sorpassas di une storie real che nus ingialis di bot, stramudanus in statuis di cere di no stes”
Ma ce ise le muart?
Tu, no tu ses muart, no sta vè pore, se o soi chi a scriviti a lul dì che tu ses viv, les tos ideis, le tos peralulis, i toi pensiirs e son vivs, atuai, le vite e je chist, e va doprade ben, e tu tu le as doprade ben. Plen di curiosetat, o ai jodut ceche alè scrit di te su wikipedia: poete - zornalist – regisser – senarist – scritor – lenghist – Porco boe, cemut setu rivat a fa dutis chistis robis tal poc timp che tu vevis? Nome Lissandri il Grand e Napoleon e son rivas a sledrosà el mont in cusì poc timp! E tu tu lu as sledrosat, viart, cjalat, analizat, combatut, cence baionetis o fusii, ma nome cule cineprese, le pene e le peraule, tu di bessol cuintri ducs, ma no tu ieris dibessol, tu vevis vissin i toi convinciments, perdonimi, i tuoi resonaments, perceche tai convinciments alè dentri pal plui presunzion, tai resonamenets si cjate analisi, riflession, e soredut si a di savè scoltà par podè resonà.
Tal vocabulari, a le peraule “cuintri conformist”, par sclarile bastares scrivi, Pasolini, tu tu ses le rapresentazion plui juste.
Tu che tu ses plui religios dai predis, ma lor no ti an volut mase ben, piorute, ma no piardude, tu as vut el coragjo di esplicà in public le to contrarietat a l'abort, motivant les tos resons, o ribatis, tos resons, cusì tu ti ses chiapat lis frecis ancje dai laics.
Tu, come Crist, cal' à volut ben ancje ai soi angusins, tu as amat cence compromes une tiare che ti ha slontanat, une politiche che no ti voleve.
Nonostant che al fos passat di poc el sessantevot, no zovins di province si viodeve di te nome le part plui eclatant, l'omosessualitat, e no frus un poc stupidus, cui ormons che giravin a mil, a cjapati pal cul, come che tu fosis un miec omp, e no che lis feminis lis vevin apene nasadis di lontan, o ierin i mestris di vite.
Vuè par fortune le robe no vares rilief, el gnuf mont, che o soi sigur che no ti plas, alè un poc plui permissiv. No sta interompimi, o hai let che tu as dite su le libertat sesual.
El gnuf mont… alè fì di chel vieli, che tu tu as vjodut murì e nassi in une gnove forme, ma che no ti an dat el timp di analizalu tal aspiet plui spregjudicat e adult cal è chel di vuè.
Tante tristerie e je stade doprade cuintri di te, tu forsit non tu lu ametaras mai, ma un poc ti varà ancje fat mal. E an pensat di pacati par fati tasè.
Ce stupids, e an forsit pensat che tu fossis di bessol, ma se a distance di di trentesis ains o sin cà, io e te a tabaja, a lul dì che non son rivas a siarati le bocje e copà el tò pensir, a lul dì che iu vin freas, no o sin stas plui scaltris di lor.
Pieripauli, ti hai let tant timp fa, e di te ogni volte che e han tabaiat in television o hai scoltat cun interes, ma secont el miò puar pensir, migo ti hai capit sin in somp, cussì une dì mi soi fat un regal, nue di strani tu disaras, spete che ti dis, o ai cjolt “Scrits corsari”.
Par me alè stat, no rilei un scrit, ma lei un libri gnuf, tante fuarce, provocassion, i toi voi e el to pensir proietas tal doman che alè el vuè di vuè. Ce ao di diti, tu vevis vjodut just, o sin rivas tal puest che tu, sint cjantestoris e no topografo, tu vevis individuat cun une precision svissare.
Satu Pieripauli … ceche mi ha impressionat di plui tai toi articui? Che tai an publicas.
E no sta ridi o maraveati, chei e ierin altris timps, e l'Italie e iere ecimò un poc bigote, epur tai an publicas su zornai importans.
A rigor di logiche el mont al vares di progredì, si, si, o alci le man par fermati, o sai … e son robis diferentis el progres e el svilup, se ti hai let o sai ceche tu volaressis dimi.
Ma tu sas, vue, cun internet, tante television, i zornai, in teorie o varessin di ve e cjatà tante information, e invesit?
Nuie, nome peraulis vueidis.
In chist moment di crisi global economiche e moral, dula cazzo sono las i intelletuai e i economists che fin a un quart d'ore prime e davin lezions e si tabaiavin intor?
Cumò no tu cjatis un, nancje a paialu ben, e soredut che vjargint le bocje nol disedi monadis.
Tal dis sot vos, vue i toi articui no tai publicaresin.
So o soi sigur di ceche o dis?
O crodarai, e no sta ridi par chel che ti disarai cumò.
Pieripauli, vue tu saressis un rivoluzionari, e no ti pubblicaressin, nancje a paiament.
No tu mi crodis? Cialiti ator, lei i zornai, viot le television, tu podaressis là su internet cul computer, che alè un argagn, visiti che a lè nome un imprest, e ancje a prove di stupit, se no cemut fasaressino a dopralu ducs.
O vin le crise, e duc e scrivin che o vin le crise, alè come dì che vuè al pluf, e continuà a scrivi dut al dì che al pluf, ce sens al?
Ma Sante Madonute, scrivin, tabain, confrontinsi su ceche al sucet, sul ce fa, e soredut su ceche al sucedarà!
Invest nuie, el vueit pneumatic.
Ciale Pieripauli, o pensi che vuè se tu vessis timp, tu ti divertiressis a cjalà denant di ducs come un oracul, come che tu sas fa nome tu. Ce vino di fa? Una domande chiste fate cul cur.
Ma cence scomodati masse, o provi io a rispuindimi, parceche vinti let, daur de domande o vares di ciatà ancje le rispueste. O vin di doprà el cjurviel, rispueste obvie salacor, ma o vin di fa cussì, resonà, studià, capì, scoltà, ma soredut meti in bande lis monadis, la a viodi e cirì le sostanse des robis. Nu stan disint che i nestris fiis, forsi e varan un doman plui difficil di no che o sin i lor paris, e di front a chistis dichiarazions abominevolis e aberantis, nissun si inrabie. Ma vuè o metin in pins el doman, su le piere di vue si metarà su le cjase di doman, e i zovins e son le cjase di doman, e son tal avignì dal mont intir. Ceche si vjot qualchivolte ator alè depriment, e son segnai poc confuartants, pense che di une bande tains zovins e fasin le code dute le gnot par comprà par prins el iPhone5, tu tu mi domandaras cheche alè, ma no val le pene che io o piardi timp a sclariti e tu a scoltà, alè nome un gnuf striament eletronic che tra un an al sarà aromai veli, e no ie che cà le “brame dal savè” che e vares di animà ogni gnove generasion, parimens tu viodis altris codis, mancul legris e avilidis, codis plui lungis, codis de sperance a cirì un improbabil puest di vore denant di un anonimi ufici di colocament, come tu puedis viodis, chist alè un mont plen di contradisions. O ai di adusì lis tos peraulis, perdonimi, ma e son essence, pure sintese dal pensir, cas diviers i gireres intor “ I bens superfluis e rindin le vite un sopreplui”, e al è par chist che tu as cusì grant amor pe nestre, ormai muarte, civiltat contadine. O ai di innomenati di gunf, tu mi perdonaras, ma i toi pensirs e son grivis, e son pieris “ In une societat dulà che dut alè proibit, si po' fa dut. In une societat dulà che alè pirmitut alc, si po' fa nome alc”.
Io no soi un rivolusionari, tu tu lu ses, e come ducs i rivolusionaris, el to destin a lè chel di no murì tal to iet. Tu tu vevis capit dut, sghavat in profond, ben sot le figure confuartant e paterne dal gnuf paron “El podè non è plui repressiv, el gunf podè consumistic permissiv si è avalit des nistris disconsacrazions e conquistis di laics, iluminists, razionalists, par liberasi dal passat, creà un mont su le sacralitat dal consum, ratificant el fat che lis religions no servisin plui al podè, e soredut lis niestris nobils resons, no nome no son diband, anzit, e diventin organichis al gnuf podè, che les à supadis e divoradis a propri avantag come un mostri stramudat, di chei che si viodin tai cine di vuè.
Ma dut chist al passe te indifferense, come ineludibil, al semee squasit che no si vedi plui sanc tes venis par lotà, par ribelasi. Al dispiet di dut, io o ai fidance tai zovins, o speri che un dì lor e capiran e cussì e costruiran un mont gnuf e mior. Io no smetarai mai di sperà, ancje un puaret come me, forsit un poc borghes, al brame amalcun une cosciense social in chist mont stuart, che nolè atri nome che un grant pais mal organisat, ma o sai che tu tal auguris ancje tu, Pieripauli.
O risci di rabiami tabaiant di chistis robis, perdonimi, ma ancje cialant le nature e imparànt di iè, tu viodis che le leonesse si da di fa par dà un bon mangja ai soi fis, e alore no ce fasino? O spietin, ma ce spietino? E soredut dulà stino lant? O soi sigur che ti plasares jessi cà a resonà su chists argoments, o crot che tu nus daresis le to peraule argude. Ma o varin di fa di bessoi, rangjasi, cjatà le strade di bessoi, peraulis che i furlans si son mitus in bocje plui voltis, ma el Friul no l'è chel che tu as vjodut tu, l'Orcolat a là gjavade le piel al to Friul e ia mitut un vistit gnuf che a distance di timp si alè ancje frujat, vuè chiste tiare e je un'altre robe, ma el mont stes a l'è un'altre robe.
Le peraule magiche e iè globalisasion, vuè se no tu ses globalisat tu ses un cojon, ma cemut puedio io confrontami cu un Ceceno, se no cognos le me storie e no sai cui co o soi?
Pieripauli, tu vevis viodut iust, o sin aromai “consumadors” no personis, e cul timp o diventarin “consumadors puars” viodut che dopo venus pasus e fas diventà ignorans, cumò come sansujes nu stan giavant el sanc. E alore ce fasino … l'omp a là dentri di se dos fuarcis, une e iè che di disfà, che altre e iè che di fa, partant bisugne che chist cristian si meti tal ciaf di lavorà, cence cirì furbariis, ma resonant e operant cul voli cal cjale simpri de bande dai propris fiis, alore al rivarà a meti a puest li robis, se no o larin viars un mont brut, che a lè mior che tu, Pieripauli, nancje tu lu viodis. No pues concludi chiste tabaiade se no cun peraulis tos “No bisugne ve pore, come justementri un timp, di no discredità avonde il sacrat o di vè un cur”.
Grassie di vemi scoltat.

Mandi, Pieripauli. Mauro Tonino



re_IMG_9539


Lettera a Pierpaolo


(Versione in lingua italiana)


Ti scrivo uomo, e ti chiamo per nome, “Ti clami Pieripauli“, perché sei nato a Bologna, ma con ostinazione ed orgoglio parli friulano, noi invece no, spesso ci vergogniamo di parlare “la marilenghe”.
Ti parlo e ti scrivo al presente, e non so nemmeno se sono il primo a farlo, ma questo poco importa.
Scrivere ad un morto, questo è matto dirà qualcuno, perché tu sei morto il due novembre millenovecentosettantacinque.
Avevi un cruccio, che enunciasti con umiltà e pudore un dì “Io e Calvino rischiamo di essere superati da una storia reale che ci ingiallisce di colpo, trasformandoci nelle statue di cera di noi stessi”.
Ma che cos'è la morte?
Tu non sei morto, non aver paura, se sono qui a scriverti vuol dire che sei vivo, le tue idee, le tue parole, i tuoi pensieri sono vivi, attuali, la vita è anche questo, e va adoperata al meglio, e tu lo hai fatto.
Incuriosito, ho cercato su Wikipedia quello che hanno scritto di te: Poeta – giornalista – regista – sceneggiatore – scrittore – linguista – , accidenti ! come sei arrivato a fare tutte queste cose nel poco tempo che hai vissuto? Solo Alessandro Magno e Napoleone hanno rivoltato il mondo in così poco tempo.
E tu lo hai rivoltato, aperto, osservato, analizzato, combattuto, senza baionette e fucili, ma solamente con la camera da presa, la penna e la parola, tu solo contro tutti, ma no, non eri solo, avevi vicino le tue convinzioni, perdonami, i tuoi ragionamenti, perché nelle convinzioni c'è dentro di solito presunzione, nei ragionamenti si trova analisi, riflessione, e sopratutto si deve saper ascoltare per ragionare.
Nel vocabolario alla parola “anticonformista” come spiegazione basterebbe scrivere, Pasolini, tu ne sei la rappresentazione più vera.
Tu sei più religioso dei preti, ma loro non ti hanno amato molto, pecorella non smarrita, hai avuto il coraggio di manifestare pubblicamente la tua contrarietà all'aborto esponendo le tue ragioni, ribadisco, tue ragioni, così ti sei subito gli strali anche dai laici.
Tu, come Cristo che ha amato e voluto bene anche ai suoi carnefici, hai amato senza compromessi una terra che ti ha allontanato, una politica che non ti voleva.
Nonostante fosse passato da poco il sessantotto, noi giovani di provincia notavamo di te solo la parte più eclatante, l'omosessualità, e noi ragazzini un po' sciocchi, con gli ormoni che giravano a mille, a prenderti in giro, come se tu fossi un mezzo uomo, e noi che le donne le avevamo appena annusate da lontano, eravamo maestri di vita.
Oggi per fortuna la cosa non avrebbe alcun rilievo, il nuovo mondo, che sicuramente non ti piace, è un po' più permissivo.
No, non interrompermi, ho letto quello che hai detto e scritto sulla libertà sessuale.
Il nuovo mondo … è figlio di quello vecchio, che tu hai visto morire e nascere in una nuova forma, ma che non ti hanno dato il tempo di analizzare nel suo aspetto più spregiudicato e adulto che è quella di oggi.
Tanta cattiveria è stata usata contro di te, tu forse non lo ammetterai mai, ma un po' ti avrà anche fatto male.
Hanno pensato di colpirti per farti tacere.
Che stupidi, hanno forse pensato che tu fossi solo, ma se oggi a distanza di trentasei anni siamo qui io e te a parlare, vuol dire che non sono riusciti a chiuderti la bocca e uccidere il tuo pensiero, vuol dire che li abbiamo fregati, noi siamo stati più furbi di loro.
Pieripauli, ti ho letto tanto tempo fa, e ogni volta che hanno parlato di te in televisione ho ascoltato con interesse, anche se secondo il mio modesto pensiero, mica ti hanno capito fino in fondo, così un giorno mi son fatto un regalo, tu dirai “nulla di strano”, aspetta che ti dico, ho comperato “Scritti corsari”.
Per me non è stato rileggere un testo, ma leggere un libro nuovo, tanta forza, provocazione, i tuoi occhi e il tuo pensiero proiettati verso il futuro, che è l'oggi del nostro tempo.
Cosa vuoi che ti dica, avevi visto giusto, siamo arrivati nel posto che tu, essendo un cantastorie e non un topografo, avevi individuato con una precisione svizzera.
Sai Pierpaolo…quello che mi ha di più impressionato nei tuoi articoli? Che te li hanno pubblicati.
E non ridere o meravigliarti, quelli erano altri tempi, e l'Italia era ancora un po' bigotta, eppure te li hanno pubblicati su giornali importanti.
A rigor di logica il mondo dovrebbe progredire, sì, sì, alzo la mano per fermarti, lo so … lo sviluppo e il progresso sono cose differenti, e avendoti letto so cosa vorresti dire.
Ma sai .. oggi con internet, tanta televisione, i giornali, dovremmo ricevere e trovare tanta informazione, ma invece?
Niente, solo parole vuote.
In questo momento di crisi globale economica e morale, dove cazzo sono spariti gli intellettuali e gli economisti, che fino a un quarto d'ora prima pontificavano parlandosi addosso?
Ora non ne trovi uno nemmeno a strapagarlo, e che soprattutto aprendo la bocca, non dica solo idiozie.
Te dico sottovoce, oggi i tuoi articoli non li avrebbero pubblicati.
Se sono sicuro di quello che affermo?
Certamente, e non sorridere per quello che ora sto per dirti.
Pieripauli, tu oggi saresti un rivoluzionario, e non ti pubblicherebbero, nemmeno a pagamento.
Non mi credi? Guardati attorno, leggi i giornali, guarda la televisione, vai su internet, potresti ora usare il computer, uno strumento, ricorda che è solo uno strumento, ma a prova di stupido, altrimenti come potrebbero usarlo tutti.
Abbiamo la crisi, e tutti scrivono che abbiamo la crisi, è come dire che oggi piove, e continuare a scrivere tutto il giorno che piove, insulso, che senso ha?
Ma santa Madonna, scriviamo, parliamo, confrontiamoci su cosa succede, su cosa accadrà e sopratutto su cosa fare!
Invece, niente, il vuoto pneumatico.
Guarda Pieripauli, io penso che se tu avessi tempo, ti divertiresti a guardare davanti a tutti come un oracolo, come sai fare solo tu.
“Che cosa dobbiamo fare?”, una domanda questa, fatta con il cuore.
Ma senza importunarti troppo, provo io stesso a rispondere, perché avendoti letto, secondo le domande dovrei trovare pure le risposte.
Dobbiamo usare il cervello, forse ovvia come risposta, ma dobbiamo fare così, ragionare, studiare, capire, ascoltare, ma soprattutto mettere da parte le banalità, le cose ovvie, e andare vedere e ricercare la sostanza nelle cose.
Non stanno dicendo che i figli avranno un domani più difficile dei padri? E di fronte a queste dichiarazioni abominevoli e aberranti, nessuno si incazza.
Ma oggi stiamo costruendo il domani, sulla pietra di oggi si edificherà la casa di domani, e i giovani sono la casa di domani, sono il futuro del mondo intero.
Quello che a volte si vede è deprimente, ci sono segnali poco confortanti, pensa che da una parte molti giovani fanno la coda tutta la notte per acquistare per primi l'iPhone5, tu mi chiederai che cos'è, ma non val la pena che io perda tempo a spiegartelo e tu ad ascoltare, è solamente una nuova diavoleria elettronica che tra un anno sarà già obsoleta, e non è certo questa la “bramosia del sapere” che dovrebbe animare ogni nuova generazione, parallelamente vedi altre code, meno allegre e tristi, code più lunghe, code della speranza alla ricerca di un improbabile posto di lavoro davanti ad anonimi uffici di collocamento, come vedi questo è un mondo pieno di contraddizioni.
Devo citare le tue parole, perdonami, ma sono essenza, pura sintesi del pensiero, altrimenti ci girerei attorno “I beni superflui rendono superflua la vita”, ed è per questo che ami così profondamente la nostra, ormai morta, civiltà contadina.
Devo citarti di nuovo, mi perdonerai, ma i tuoi pensieri sono pesanti, sono pietre “In una società dove tutto è proibito, si può fare tutto. In una società dove è permesso qualcosa, si può fare solo qualcosa”.
Io non sono un rivoluzionario, ma tu lo sei, e come tutti i rivoluzionari, il tuo destino è quello di non morire nel tuo letto.
Avevi capito tutto, scavato in profondità, ben sotto l'immagine rassicurante e paterna del sistema “Il potere non è più repressivo, il nuovo potere consumistico permissivo si è avvalso delle nostre sconsacrazioni e conquiste di laici, illuministi, razionalisti, per liberarsi del passato, creare un mondo sulla sacralità del consumo, sancendo il fatto che le religioni non servono più al potere, e sopratutto le nostre nobili argomentazioni, non solo non sono inutili, anzi, diventano organiche al nuovo potere, che le ha assimilate e divorate a proprio vantaggio come un mostro mutante, tipo quelli che si vedono nei film di oggi”.
Ma tutto questo passa nell'indifferenza generale come ineludibile, sembra quasi che non si abbia più sangue nelle vene per lottare, per ribellarsi.
Nonostante tutto, io ho fiducia nei giovani, spero che loro un giorno capiscano e costruiscano un mondo nuovo e migliore.
Io non smetterò mai di sperare, anche un poveraccio come me, forse un po' borghese, spera in una coscienza sociale per questo mondo storto, che è solamente un villaggio globale mal organizzato, ma so che te lo auguri pure tu Pieripauli.
Rischio di arrabbiarmi parlando di queste cose, perdonami, ma anche guardando la natura, e imparare da essa, tu osservi che la leonessa si dà da fare per procurare del buon cibo ai suoi cuccioli, e allora noi cosa stiamo facendo? Cosa stiamo aspettando? E soprattutto dove stiamo andando?
Sono sicuro che ti piacerebbe esser qui a disquisire su questi argomenti, credo che ci porteresti la tua parola arguta.
Ma dovremo fare da soli, arrangiarci, trovare la strada da noi, parole che i friulani si sono messi in bocca molte volte, ma il Friuli non è più quello che hai visto tu, “l'Orcolat” (il terremoto) ha tolto la pelle al tuo Friuli, gli ha messo addosso un vestito nuovo che a distanza di poco tempo si è pure sgualcito, oggi questa terra è qualcos'altro, ma il mondo intero è qualcos'altro.
La parola magica è globalizzazione, oggi se non sei globalizzato sei un coglione, ma come posso confrontarmi con un Ceceno se non conosco la mia storia e non so chi sono?
Pieripauli, avevi visto giusto, siamo ormai “consumatori” non persone, e col tempo diventeremo “consumatori poveri” visto che dopo averci pasciuti e resi ignoranti, ora come sanguisughe si stanno prendendo il nostro sangue.
E allora che dobbiamo fare .. l'uomo ha dentro di sé due forze, una è quella di distruggere, l'altra quella di costruire, è necessario quindi che questo si metta in testa di dover lavorare, senza cercare sempre furberie e scorciatoie, ragionando e operando con l'occhio che guardi sempre verso il futuro dei propri figli, allora arriverà a sistemare le cose, altrimenti ci aspetta un brutto mondo, ed è meglio che tu neanche lo veda.

Non posso concludere questa chiacchierata se non con parole tue “Non bisogna aver paura, come giustamente un tempo, di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore.”

Grazie di avermi ascoltato


Mandi Pieripauli


Mauro Tonino




(Diaolin)

 

 

re_IMG_9640

 

 

alba…


Ala fin l'èi sol parole
tut sta smania
maledeta
la se strénge ‘ntorn
menùdola
e le nòt
l'è le orazion de na cigàia
‘mbarlumada da la luna


alba… alla fine è solo parole | tutta quest'ansia | maledetta | si avviluppa attorno | convolvolo | e le notti | sono le preghiere di una cicala | abbagliata dalla luna


Grazie a tutti e al prossimo anno.

Diaolin

 

29851
Powered by [ Universal Post Manager ] plugin. HTML saving format developed by gVectors Team www.gVectors.com