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Digressioni sulla Civiltà (i testi)Seguite le pagine (numeri in fondo) se volete vedere tutto il testo.httpv://www.youtube.com/watch?v=EdiS1ML-c8g ore 9:10 all'esterno di Malga Sass (Diaolin) Vernuga, Grosio di Valtellina3 Novembre 1918 Alla Pregiata attenzione dell' Egr. Sig. Colonnello Armando Montanari - Comandante il 138° reggimento di fanteria. Umilmente chiedo scusa se con queste mie righe ruberò del tempo prezioso alla signoria vostra oberata dagli impegni del comando. Sono Bazzeghini Caterina, moglie del sergente Bortolo comandante il secondo plotone d' assalto della quarta compagnia del secondo battaglione. Di lui non ho nuove dal 16 di Giugno. Affranta ne chiesi notizia al di lui signor Capitano comandante la compagnia Il Capitano addolorato mi rispose che il mio sposo guidava l'assalto e fu colpito alla fronte sul monte Montello quel 16 Giugno. Trovandomi ora sola con due figlie, lo stipendio mio di maestra solo bastante al minuto sostentamento, vorrei poter disporre delle poche proprietà che le mie forze non mi concedono di mettere a frutto e le vigenti leggi di dare in affitto. Vorrei pregare la signoria vostra di intercedere presso le competenti autorità perché sia certificata la morte del mio sposo e possa così provvedere agli impegni che la vedovanza mi impone. Al momento egli risulta ancora disperso, ma più d'uno mi ha scritto di averlo visto morire. Il cappellano tenente Scocchera mi scrisse righe di conforto e confermò quanto già scritto dal capitano. Il caporale Giovanni Tomei, di cui mai avevo udito prima, mi scrisse per dirmi che il mio diletto gli aveva salvata la vita. Egli lo vide morire: il petto squarciato da una scheggia di bomba. La prego ancora, con filiale devozione, di provvedere al disbrigo di quei documenti che ancora fossero di competenza della Signoria vostra. Ringraziandola di cuore per quanto Lei vorrà operare, devotamente mi firmo Marta Besio vedova Bazzeghini. (da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler) (Dallagiacoma) A volte scopri che la tua storia potrebbe essere stata diversa se tu fossi riuscito a finire prima la tua guerra. A volte è la tua guerra interiore ad alimentare il futuro e ti sembra che senza di essa quella speranza possa sfumare in noia. A volte la storia si sovrappone a te che la vivi per riannodare il tuo cammino ad un filo costantemente teso tra ieri e domani, portandoti a ripercorrere un tempo compagno dei tuoi passi per lunghi anni. Poi, finalmente, il filo si spezza e riesci a comprendere il tuo oggi. Le bandiere che troverete lungo il tragitto le ho messe solo come fonte di riflessione, nessun giudizio pur essendo fondamentalmente delle considerazioni di poche persone oggi presenti. Non vi chiedo di accettarne supinamente il contenuto ma di provare a rianalizzarlo in un contesto personale; alla fine del percorso prima di scendere avremo modo di discutere tutti assieme questo aspetto che potrà sicuramente apparire azzardato ma, ripeto, si tratta solo di osservazioni: non sto parlando di destra o di sinistra ma sto parlando dell'ignavia dell'uomo nei confronti dell'uomo stesso. Andiamo... Vi prego di non chiacchierare durante il tragitto per fare in modo che il momento sia con noi stessi. Ovviamente questo non vale per i bambini che parteciperanno con i loro tempi e con i loro modi e faranno da corona al nostro percorso. (Durante il tragitto ogni 100-150 metri Michele Dallagiacoma declamerà a caso uno dei pezzi da “http://ilfascistainnoi.diaolin.com” anche interrompendo eventuali declamazioni/letture) (Dallagiacoma) (Diaolin) 28 luglio 1914Ciao mama, a contartela dal bòn no me l'èra mai ‘ntaiàda gia par qoél fon la valìss e on lì ‘mprèssa a farla föra ne vedren un de sti dì, giust el temp de dirghen doi 28 luglio 1914 Ciao, mamma, | è arrivato un foglio di carta, un ordine timbrato | devo andare sui Carpazi che mi chiama la morosa | c'è scritto sopra che qualora rifiutassi lei non mi amerebbe più | e sarei incarcerato e fucilato nella schiena | ma per dirla sinceramente non me n'ero mai accorto | di questo amore con una forestiera che ad un tratto vuole me | ma anche a Giuseppe, il carrettiere, gliela ha scritta, brutta puttana | è una storia quasi uguale per portarsi via anche lui | quindi faccio la valigia e vado subito a chiarire | che lo sappia che da noi lo baciamo, l'amore, col cuore | dillo tu alla mia fanciulla che non era profumata | ma che l'ha portata un uomo col fucile sotto braccio | ci vedremo uno di questi giorni, giusto il tempo di dirgliene quattro | ti saluto, per il momento, dai un bacio al mio uccellino Ripartiamo e poi seconda fermata dove leggerò un pezzo dalle lettere di Daniel Suchert di Schuler (Dallagiacoma) Otto mesi: Era il lavoro degli scalpellini che si svolgeva all'aperto ed era stagionale; li occupava dalla primavera fino al tardo autunno. Un poco come i lavoratori delle nostre cave di porfido di Albiano. Finché saranno aperte! ILa montagna non voleva finire. (da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler) (Dallagiacoma) Terza fermata siamo arrivati ai Pradi da le Fior: lasciamo che il didgeridoo accompagni la nostra fermata al bivio per salire fino al margine del bosco: si aprono gli orizzonti e possiamo finalmente comprendere il percorso silenzioso che abbiamo seguito finora. Ci fermiamo per dieci minuti o finché l'amico Robert si fermerà poi proseguo io con una mia poesia prima di incamminarci nuovamente verso la sosta. (Diaolin) la colpal'ài vista mi, dalbòn l'ài vista coi mè òci la colpa l'ho vista io, davvero l'ho vista, con i miei occhi | è stata una stella che pedinava la luna | a strattonare quel brulichio di pesci nel cielo | fin dietro al monte dove era tesa una rete | le ha prese tutte, insieme, e s'è fatto buio | si son lasciate prendere in giro da una fata | col viso che cambia aspetto giorno per giorno | facendo credere che la colpa sia del sole fiacco | improvvisamente esce un caldo raggio d'estate | ed in un lampo una fontana di lucciole sparpagliate | forse stanotte qualcuno si è liberato | e il cielo è a strisce come le imposte di una prigione (Dallagiacoma) (Diaolin) Proseguiamo ora verso il limitare del bosco dove, con gli amici Mauro, Lina, Robert, Antonio e quanti altri vorranno dire la loro, racconteremo una storia che potrebbe essere accaduta proprio domani. Vogliamo essere liberi e finalmente cercheremo di esserlo ripercorrendo il nostro ieri. Appena arrivati inizia Robert e io leggerò le due lettere di Daniel inframezzate da Dallagiacoma poi proseguirà Mauro (Robert suona flauto o didgeridoo quando vuole). Susch: Era poco più di un villaggio all'inizio del ‘900 e conta anche oggi poco più di 200 abitanti. Si trova sulla sponda sinistra dell'Inn ad una quota di 1. 438 m ed è completamente circondato da montagne. Il punto più elevato del suo territorio comunale è il Piz Linard che raggiunge i 3.411 m di quota. La cava di granito era, allora, l'unica sua attività economica di rilievo. IISusch, Giugno 1914 (da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler) (Dallagiacoma) (Diaolin) Comincia la guerra anche per il nostro amico Bortolo e la sua battaglia interiore si infervora e le domande lo attanagliano. VAlla mia classe è arrivata la cartolina. (da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler) (Dallagiacoma) (Diaolin) Ho conosciuto Mauro ad un Salotto dell'amica Irene Dolzani che si è tenuto a Valmorel, località dove Dino Buzzati ha ambientato il suo “Miracolo”. Il suo Rossa Terra è stato una specie di amore al primo ascolto: subito dopo aver sentito la lettura gli ho detto “Caro Mauro, il prossimo anno facciamo una cosa insieme in montagna con questa incredibile storia” (Mauro Tonino) Letture dal libro ROSSA TERRA In navigazioneFilippo disarmò la randa per rendere più dolce l'abbrivio, così da poter gustare il pranzo senza i patemi di un'attenta navigazione. Lì, soli in mezzo al mare, senza barche in vista per miglia, a Filippo pareva di essersi estraniato dal mondo, di vivere dei momenti in un altro contesto, in un'altra dimensione. La pastasciutta preparata dal nonno era sublime, impeccabile nella cottura, come nel condimento, ricetta originale, misto di carne simile a gulasch.Fece i complimenti a Marino, questi sorrise, poi lanciò l'amo "Nonno, non sei più ritornato nella tua terra?" "No" disse Marino abbassando lo sguardo. "Ti manca?" chiese timidamente Filippo, aspettandosi una risposta liquidatoria. Marino invece rispose con garbo "Sì, mi manca, sogno a volte quei luoghi, sogno mio padre, la mamma, la nonna, e sento ancora il profumo delle pinete, l'aroma di resina, e l'odore acre di un cespuglio del quale non ricordo più il nome, tutte fragranze che si espandevano nei prati e nei boschi a primavera. A volte riemergono dal fondo dello scrigno dei ricordi le immagini dell'abbeveratoio per buoi e capre, la piazza, la chiesa e la canonica, luoghi, dove si consumò una un'immane tragedia, della quale fui inerme spettatore, e che forse ti narrerò … .". "Vorresti tornarci?" "No" fu la risposta. Dal tono determinato, quel rifiuto assumeva quasi l'espressione di una sentenza definitiva. Filippo insistette "Parlarne ti fa soffrire nonno?" "Sì" rispose Marino sempre con lo sguardo abbassato, poi posò la forchetta con gli spaghetti avvolti intorno, e si accarezzò i capelli. Con l'ardore e l'ostinazione giovanile, Filippo proseguì, ormai il colloquio stava entrando nella loro carne. Entrambi si guardarono negli occhi, il sole di mezzogiorno, la brezza, il lieve ondeggiare della barca, erano ora sensazioni così lontane da quell'anziano e da quell'uomo ancora acerbo. Erano lì, soli, messi a nudo l'uno di fronte all'altro, davanti al proprio passato e al proprio futuro. Filippo si accorse di aver azzardato, la direzione intrapresa portava ad un bivio, il viaggio avrebbe potuto concludersi in quel momento e invertire la rotta per rientrare sicuri in porto, oppure proseguire fin chissà dove, scoprendo inevitabilmente se stessi. (Dallagiacoma) 30 secondi di pausa (Mauro Tonino) La matrignaLa cena si consumò in silenzio. Filippo aveva adottato una strategia attendista con il nonno, il viaggio era ancora lungo e sentiva che il tempo avrebbe giocato a suo favore se avesse lasciato a Marino i tempi giusti per aprirsi. Dopo cena Filippo avvertì il nonno dell'intenzione di scendere di nuovo a terra, si sarebbe aspettato qualche osservazione o divieto, invece la risposta fu un laconico "Ve ben, ma non allontanarti troppo e soprattutto non far tardi". Dopo essersi fatto un giro nel centro storico, osservato le antiche mura, e buttato l'occhio dentro i negozietti pieni di cose multicolori, controllò l'ora e decise di rientrare. Dal molo intravvedeva in fondo la barca ormeggiata, allineata in mezzo ad una moltitudine di natanti, quella sarebbe stata per lui casa, rifugio e oracolo per diversi giorni. In quell'area poco illuminata si stagliava la brace rossa della sigaretta che identificava la posizione di Marino sulla barca. Avvicinandosi gli occhi si abituarono alla semi oscurità, così intravide il vecchio marinaio seduto a poppa con lo sguardo rivolto verso il mare. Filippo risalì commentando la breve escursione a terra "E' carina Cittanova d'Istria". "Sì, lo so". Azzardò una domanda "Perché gli hanno cambiato il nome?" "I vincitori di una guerra riscrivono sempre la storia" . Filippo non riuscì a comprendere completamente cosa volesse dire il nonno, ma riteneva che per ora quella risposta dovesse bastare. Cercò allora di dirottare la conversazione su altro, sperando che questo potesse far sciogliere il mutismo nel quale si era racchiuso Marino, dopotutto si era impegnato solennemente a parlargli del proprio vissuto. (Dallagiacoma) A questo punto interviene Robert Mitterrutzner con il didgeridoo che smetterà dopo che Lina avrà ripreso il racconto (Lina Morselli) BAINSIZZACaporetto oggi si chiama Kobarid, è in Slovenia, per gli italiani è ancora sinonimo di disfatta, gli sloveni ne parlano come di un miracolo. La cittadina di Kobarid è ordinata, pulita, un misto architettonico fra tradizione strettamente autoctona e prolungamento dell'Austria, nelle forme, nei colori, negli ammiccamenti a un passato tanto recente quanto remoto. Il Museo della Guerra è molto bello, sia per la sua ubicazione in un'antica casa riadattata con rispetto e cura, sia per la passione con la quale è stato allestito e viene tutt'ora condotto. Nel museo di Kobarid si entra quasi con baldanza, con la giusta curiosità storico-turistica che prevede una guida in mano con un dito fermo a fare da segnalibro per la meta successiva, nella convinzione che la visita durerà quanto basta per consentire altre scoperte, prima della sera. Ma ben presto il passo rallenta, la voce cala d'intensità, fino a raggiungere il silenzio, e tra i visitatori, pochi o tanti che siano, l'emozione si taglia col coltello. Nelle grandi stanze è esposto tutto ciò che la Grande Guerra ha significato, nell'orrore della distruzione come nelle tecniche belliche che poi verranno perfezionate nel corso della storia, fino ai nostri giorni: equipaggiamenti, armi, gas, abiti, ospedali da campo, dotazioni varie … E foto, moltissime fotografie, straordinarie; allora i fotografi erano i benvenuti fra i soldati, come i giornalisti, e non tutti venivano manipolati da una propaganda che presentava la guerra come “bella, eroica, vitale”. Qui ci sono anche fotografie che rendono omaggio solo al vero, che non camuffano il reale, nemmeno quando ritraggono gruppi di uomini insieme, col bicchiere alzato, neppure quando mostrano i nemici. Già, i nemici: qui scompaiono, la testimonianza museale è un abbraccio che non si ferma davanti a bandiere o mostrine, qui la guerra è di tutti e per tutti e finalmente ci si sente uguali, nell'impotente vergogna di quella violenza insensata, che nessuno ha avuto la forza di evitare. Più di una volta torno sui miei passi, a rileggere le didascalie accanto ad oggetti e fotografie, e sono queste ultime che mi affascinano di più, prime fra tutte quelle che mostrano resti di paesi, di strade, occupate solo da truppe, perché i civili erano sfollati altrove. Sopra una casa c'è l'insegna “Kavarna” e sotto il cartello “Caffè” e realizzo: qui gli invasori erano gli italiani. Allora riguardo tutti i soldati ritratti, nella speranza di riconoscere mio nonno, Fermo Giuseppe Ongari, partito nel 1916, a 23 anni, e arrivato fin da queste parti, fino all'Altopiano della Bainsizza, alla cui estremità c'è Kobarid. Mio nonno non compare nelle foto, ma io me lo rivedo: un giovanotto con due mani sproporzionate al resto del corpo agile ma piccolo, perché non può essere grande e grosso chi ha cominciato a lavorare in campagna a 7 anni. Fermo Giuseppe aveva anche i baffi, scuri come i capelli e gli occhi, e cantava da tenore con una voce bellissima. Il canto e la musica erano la sua passione, ma questo non gli ha impedito di diventare un bravissimo agricoltore, specializzato in ortaggi. Da suo padre, di cui parlava pochissimo, aveva imparato a governare le bestie, a coltivare meloni, a preparare il terreno giusto per asparagi e fragole. A Fermo Giuseppe piaceva lavorare la terra, anche se qualche volta gli ho sentito dire che sarebbe stato meglio andare a scuola, ma lui era stato fortunato perché aveva fatto fino alla seconda elementare e sapeva leggere e scrivere. Neppure di sua madre parlava molto. Una volta sola mi aveva detto che ricordava forse l'unica raccomandazione che madre e padre gli facevano in continuazione: mai fare del male, a nessuno, per nessun motivo, non fare del male agli altri. Con quelle parole nelle orecchie, Fermo Giuseppe bambino teneva la cavezza delle bestie che tiravano l'aratro mentre il resto del mondo ancora dormiva. Con quelle parole, “non fare del male”, Fermo Giuseppe andava col fratello al coro della domenica in chiesa, lui a cantare e il fratello a suonare il violino, un fratello amatissimo, e geniale: sordastro, analfabeta, suonava il violino magistralmente, in paese c'era chi sosteneva che dovesse andare al conservatorio, ma avrebbe dovuto almeno prendere la licenza elementare. Fermo Giuseppe l'ha accompagnato anche l'ultima volta, al cimitero, per colpa della tubercolosi, e ha conservato il violino per tutta la vita, pur perdendo l'archetto in chissà quale trasloco. “Non far male a nessuno” risuonava sempre dentro di lui, mentre diserbava, concimava, mungeva, si faceva crescere i calli nelle mani e gli si ingrossavano le unghie, mentre con gli altri fratelli più grandi metteva via centesimo su centesimo per comprarsi un po' di vacche da latte, poche all'inizio, ma se tutto fosse andato bene si poteva riempire la stalla e poi comprare anche un po' di terra, e salutare il padrone e alzare la testa. “Non far male a nessuno, mai”, risuonava nelle orecchie di Fermo Giuseppe mentre il treno lo portava oltre il Piave, strizzato in una divisa che gli legava i movimenti e con la quale addosso non sarebbe stato possibile neanche segare l'erba medica col ferro. Non so dove sia stata la sua prima destinazione, ma di certo ben presto è arrivato in trincea, in prima linea, un fantaccino come tanti, che parlava solo dialetto, carne da cannone. pausa (Dallagiacoma) pausa A noi nipoti giovani e teneri, che lo ascoltavamo durante i pranzi nella grande cucina disturbata solo dal ronzio di uno dei primi frigoriferi del boom economico, anni dopo, raccontava che era brutto stare in trincea, usava solo queste semplici parole, e solo ora mi rendo conto della loro forza tragica. Forse perché solo oggi ci sono stata dentro a una trincea, proprio a Kobarid, dove una lunga trincea dell'esercito italiano è stata perfettamente ricostruita e la si può precorrere, anche nelle tante e lunghe diramazioni che partono dal tracciato principale. Prima dell'ingresso nella trincea di quella che per noi resta Caporetto, un coro sloveno aveva cantato alcuni canti di guerra, con l'accompagnamento di una chitarra e di una fisarmonica. A mio nonno sarebbero piaciute quelle voci limpide, quelle parole difficili e lontane che nessuno di noi ha sentito il bisogno di tradurre, perché era chiarissimo cosa stavano dicendo, tutti noi abbiamo capito che si parlava di madri, di fratelli, di spose e fidanzate, dei profumi delle proprie terre. Risentivo la voce di mio nonno Fermo Giuseppe, che vangando nell'orto di casa mia, già anziano ma ancora pieno di vigore, canticchiava spesso una canzonetta breve ma intensa, di quelle che nessun coro degli alpini metterà mai in repertorio “Il general Cadorna (ndr. magistralmente cantata da Lina) E poi via, dentro alla trincea, con mio nonno dietro, e le sue parole di sempre “Non fare mai male a nessuno”. Qualcuno l'ha visto arrampicarsi come un gatto fin quasi alla cima dell'albero? (Dallagiacoma) (Stefano Fait) La leggenda del Grande inquisitoreF. M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov . Nel romanzo è Ivàn Karamazov che narra al fratello Aliòscia la leggenda. “…Essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci!”. Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli…A noi sono cari anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dei per avere acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in nome Tuo. Li inganneremo di nuovo, perché allora non Ti lasceremo più avvicinare a noi. E in quest'inganno starà la nostra sofferenza, poiché saremo costretti a mentire. Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata più in alto di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all'universale ed eterna ansia umana, dell'uomo singolo come dell'intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c'è per l'uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l'uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell'uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme. E questo bisogno di comunione nell'adorazione è anche il più grande tormento di ogni singolo, come dell'intera umanità, fin dal principio dei secoli. È per ottenere quest'adorazione universale che si sono con la spada sterminati a vicenda. Essi hanno creato degli dei e si sono sfidati l'un l'altro: “Abbandonate i vostri dei e venite ad adorare i nostri, se no guai a voi e ai vostri dei!”. E così sarà fino alla fine del mondo, anche quando gli dei saranno scomparsi dalla terra: non importa, cadranno allora in ginocchio davanti agli idoli. […]. Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l'autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti così l'esempio….[Ma] siccome l'uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, così si creerà dei nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai sortilegi di una fattucchiera, fosse egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo”. […]. Abbiamo corretto l'opera Tua e l'abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull'autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono così terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti…. La leggenda del re PescatoreTerry Gilliam Parry (Robin Williams) e Jack (Jeff Bridges) Scusami se mi prendo la libertà, ma... Tu non mi sembri per niente un cuorcontento. La conosci la storia del Re Pescatore? Comincia col re da ragazzo, che doveva passare la notte nella foresta per dimostrare il suo coraggio e diventare re. E mentre passa la notte da solo è visitato da una visione sacra: nel fuoco del bivacco gli appare il Santo Graal, simbolo della grazia divina. E una voce dice al ragazzo: "Tu custodirai il Graal, onde possa guarire i cuori degli uomini". Ma il ragazzo, accecato dalla visione di una vita piena di potere, di gloria, di bellezza, in uno stato di completo stupore, si sentì per un attimo non un ragazzo, ma onnipotente come Dio: allungò la mano per prendere il Graal, e il Graal svanì lasciandogli la mano tremendamente ustionata dal fuoco. E mentre il ragazzo cresceva la ferita si approfondiva, finché un giorno per lui la vita non ebbe più scopo. Non aveva più fede in nessuno, neanche in se stesso. Non poteva amare, né sentirsi amato. Era ammalato di troppa esperienza, e cominciò a morire. Un giorno un giullare entrò al castello e trovò il re da solo. Ed essendo un semplice di spirito, egli non vide il re: vide solo un uomo solo e sofferente. E chiese al re: "Che ti addolora, amico?". E il re gli rispose: "Ho sete, e vorrei un po' d'acqua per rinfrescarmi la gola". Allora il giullare prese una tazza che era accanto al letto, la riempì d'acqua e la porse al re. Ed il re, cominciando a bere, si rese conto che la piaga si era rimarginata: si guardò le mani e vide che c'era il Santo Graal, quello che aveva cercato per tutta la vita. Si volse al giullare e chiese stupito: "Come hai potuto tu trovare ciò che i miei valorosi cavalieri mai hanno trovato?". E il giullare rispose: "Io non lo so: sapevo solo che avevi sete". (Dallagiacoma) (Mauro Tonino) Venti di guerraPassò ancora qualche minuto e lontano all'imboccatura della baia apparve Marino, Filippo rilevò che le sue bracciate erano vigorose come all'andata. Arrivato sotto bordo, come un prestigiatore che fa uscire un coniglio dal cilindro, estrasse una magnifica stella marina e la porse in visione a Filippo, inginocchiato a poppa. Il ragazzo se la rimirò tra le mani per alcuni secondi, poi Marino la chiese indietro, ricevutala, la lasciò inabissarsi delicatamente in acqua. "Perché l'hai gettata via?" chiese stupito Filippo. "Non l'ho gettata via, l'ho riposta in acqua, gli animali si possono ammirare, e credo che abbiamo già creato sufficiente disturbo a questa splendida stella marina". "Gli animali e le piante si uccidono o si estirpano non per piacere, ma per bisogno, per nutrirsi o per difendersi". "Sì, hai ragione" dovette ammettere Filippo dopo una breve riflessione. Miglio dopo miglio, quel viaggio per mare stava diventando per Filippo un affascinante percorso di conoscenza, sia dei propri mezzi, che della vera natura del nonno. Il ragazzo pose la scaletta fuori bordo per agevolare la risalita. Marino, grondante, salì sul ponte e iniziò ad asciugarsi. Filippo silente lo osservava, notando che nonostante l'età, l'anziano istriano conservava un fisico di tutto rispetto, asciutto, senza un filo di grasso e le nervature tutte evidenti, trasmetteva la sensazione di possedere ancora forza. "Dove eravamo rimasti?" disse Marino, mentre stava asciugandosi i capelli. "All'8 settembre 1943!" rispose pronto Filippo. "Noto che stai attento!" disse sorridendo, ma dopo essersi messo l'asciugamano sulle spalle, si sedette sul pulpito. A quel punto il sorriso scomparve per lasciar spazio di nuovo al racconto. "Il simbolo della nostra terra è una capretta, un'immagine quasi emblematica, e profetica della fine!" "Che cosa vuoi dire?" chiese Filippo. "Che come lupi famelici, in un diabolico gioco di tutti contro tutti, titini, tedeschi, cetnici e ustascia, si avventarono su quella capretta inerme, per smembrarla, dilaniarla e ucciderla. Pochi giorni dopo l'8 settembre, come le orde barbariche ai tempi di Roma, i partigiani scesero in Istria, e, in quei terribili giorni provammo l'assaggio di quello che poi con precisione scientifica fecero in seguito gli uomini del Maresciallo jugoslavo quando presero definitivo possesso della nostra terra. Il nostro esercito era allo sbando, il Re lontano e in fuga verso il sud dell'Italia. Eravamo alla mercé di tutti, difesi solo da quelli che storica- mente passarono per cattivi, ma che in quella situazione difesero l'italianità in Istria". "Perché cattivi? E chi erano questi?" sovrappose con foga le domande Filippo. "In una guerra è difficile classificare precisamente i buoni o i cattivi, e di solito chi vince colloca i perdenti tra i cattivi" Dopo una pausa proseguì: "Erano soldati italiani, i ragazzi della Decima Mas, che con coraggio cercarono di difendere l'italianità e la nostra terra dall'invasione, ma era come tentare di fermare il diluvio universale. In quei pochi mesi accadde di tutto, era iniziato il tempo del terrore, e con esso i primi massicci “infoibamenti”". "Infoibamenti? E cioè?" chiese serio il ragazzo. "Ancora oggi si parla poco di queste cose, quasi che le vicende della nostra terra, dovessero rimanere seppellite per sempre nell'oblio, cancellate, come mai esistite. Quando dopo pochi mesi i tedeschi si ripresero con poca fatica l'Istria, era autunno, e la popolazione li accolse quasi come liberatori, ma ci sbagliammo, anche loro avevano in progetto di annettersi la nostra terra nel “Adriatisches Kunsterland”, così a quel punto fummo abbandonati da Dio e dagli uomini al nostro destino". Scese il silenzio, Marino doveva scegliere le giuste parole per illustrare al ragazzo i fatti storici più drammatici. Guardò negli occhi il nipote e riprese la narrazione. "Filippo, se tu prendessi ora un vocabolario in mano e cercassi la parola “foiba”, troveresti questa dizione “cavità carsica”, ma le foibe furono il sepolcro per tantissimi di noi". Marino si alzò in piedi a scrutare l'orizzonte e continuò osservando "Sarà il caso di procedere con ordine, - poi abbassando gli occhi disse - purtroppo ci ritorneremo più avanti su questo". Prese una bottiglia di acqua e bevve. Dopo essersi asciugato con il palmo della mano, proseguì. Anche Nazario era in mezzo al caos, e fece quello che tantissimi militari allo sbando fecero. Gettò la divisa e ritornò a casa. Lo vidi arrivare a piedi in abiti borghesi, con una striminzita valigia, non era il guerriero con la divisa fiammante che ricordavo, ma averlo vicino a me era come toccare il cielo con un dito, papà accanto a me! Nonostante l'Europa in quei momenti fosse a ferro e fuoco, per me quel periodo fu bellissimo, ma come tutte le cose belle, anche questa durò poco. Vedevo però mio padre sempre più preoccupato, e ne aveva ben ragione. Infatti, un giorno salì fin su da noi un'auto, che si fermò proprio davanti a casa nostra. Quell'auto, come quella che accompagnò la mamma nell'ultimo viaggio, non era portatrice di buone notizie. Scesero tre uomini in divisa, quello che dal ruolo pareva il capo, era per un ragazzino come me, un essere enorme, forse alto quasi due metri e vestito di nero. Ricordo che sulla divisa e sulla visiera campeggiavano due teschi, che in controluce luccicavano come brillanti. Quell'omone aveva uno sguardo che incuteva paura, e, l'aspetto, come potrai capire tra poco, confermava pure la sua natura. Cercavano papà, lui uscì in cortile, e vedendoli sì accigliò. Il capo del gruppo parlò, con tono secco, duro “ Nazario, rimettiti la divisa! ”. Nazario, con tono gentile ma deciso, argomentò dicendo che non avrebbe più rivestito la divisa, che ormai era tutto finito, e che voleva rimanere a casa con la sua famiglia. Le miti parole di mio padre sortirono un effetto contrario rispetto a quello sperato. Il capo s'irrigidì e alzando la voce disse “Sei un traditore!”, poi le sue parole resero ancor più drammatica la situazione “Se resterai qui, comunque sarai preso dai tedeschi” disse glaciale e per dare maggiore enfasi all'ordine terminò serio “ Se non rivesti la divisa, ti ammazzo qui, sul muro del tugurio di Candusio, davanti a tuo figlio” indicando il muro a secco dietro di loro. Io ero terrorizzato, in quel preciso istante percepivo la tragicità della guerra. Iniziai a piangere aggrappandomi ai pantaloni di mio padre. Quell'uomo imponente avanzò una borsa verso papà, lui la prese. Tutti entrammo nell'angusta cucina, mentre Nazario salì al piano superiore per vestirsi. “Lei”, fino a quel momento era rimasta in silenzio, quasi a rendersi invisibile, dall'angolo della cucina mi guardò e disse “ Marino, restemo de novo da soli.”, ma il suo tono questa volta non trasudava odio, ma preoccupazione. Io mi rivolsi al capo chiedendo “Lo portate a Cittanova?”, ero ansioso di sapere il destino di mio padre. “Non lo so, non ci sono ancora direttive.” rispose con aria marziale. Nazario poco dopo scese vestito in divisa, i tre lo presero e uscirono, io lo seguii, poi al momento della partenza, mio padre mi baciò. Io non smettevo di piangere. Papà, come per giustificarsi, mi disse con infinita dolcezza “ Pensavo che saremmo rimasti finalmente insieme.” 30 secondi di pausa (Dallagiacoma) 30 secondi di pausa Qui interviene Roberto Maestri con La pelle di Malaparte (Roberto Maestri) La pelleCurzio Malaparte, Edizioni Vallecchi «L'esercito americano» disse il Principe di Candia «ha lo stesso odore dolce e tiepido delle donne bionde». «Very kind of you» disse il Colonnello Jack Hamilton. «È uno splendido esercito. È un onore e un piacere, per noi, essere stati vinti da un esercito simile». «Siete davvero molto gentile» disse jack sorridendo. «Siete sbarcati in Italia con molta cortesia» disse il Marchese Antonino Nunziante «prima di entrare in casa nostra avete bussato alla porta, come fanno tutte le persone bene educate. Se non aveste bussato, non vi avremmo aperto». «A dire il vero, abbiamo bussato un po' troppo forte» disse Jack «così forte che tutta la casa è crollata». «Questo non è che un trascurabile particolare» disse il Principe di Candia «l'importante è che abbiate bussato. Spero che non vi lagnerete del modo col quale vi abbiamo accolti». «Non avremmo potuto desiderare ospiti più cortesi» disse jack «non ci rimane che chiedervi scusa di aver vinto la guerra». «Sono certo che finirete per chiederci scusa» disse il Principe di Candia con quella sua aria innocente e ironica di vecchio signore napoletano. «Non siamo i soli a dovervi chiedere scusa» disse jack «anche gli inglesi hanno vinto la guerra: ma non vi chiederanno mai scusa». «Se gli inglesi» disse il Barone Romano Avezzana, che era stato Ambasciatore a Parigi e a Washington ed era rimasto fedele alle grandi tradizioni della diplomazia europea «si aspettano che noi chiediamo scusa a loro di aver perso la guerra, si sbagliano. La politica italiana è basata sul principio fondamentale che c'è sempre qualcun altro che perde la guerra per conto dell'Italia». «Sarei curioso di sapere» disse Jack ridendo «chi ha perso, questa volta, la guerra per conto vostro». «I russi, naturalmente» rispose il Principe di Candia. «I russi?» esclamò Jack profondamente meravigliato. «E perché?» «Qualche giorno fa» rispose il Principe di Candia «ero a pranzo dal Conte Sforza. C'era anche il Vice Commissario sovietico per gli Esteri, Wishinski. A un certo punto Wishinski raccontò di aver domandato a un ragazzo napoletano se sapeva chi avrebbe vinto la guerra». «Gli inglesi e gli italiani», aveva risposto il ragazzo. «E perché?» «Perché gli inglesi sono cugini degli americani, e gli italiani son cugini dei francesi». «E dei russi, che ne pensi? Credi che vinceranno la guerra anche loro?» aveva domandato Wishinski al ragazzo. «Eh no, i russi la perderanno» aveva risposto il ragazzo. «E perché?» «Perché i russi, poveretti, son cugini dei tedeschi». (Dallagiacoma) 30 secondi di pausa (Antonio Della Rocca) Non riesco a mettere tutto il testo letto da Antonio ma almeno la canzone ed un paio di cartoline le voglio mettere lo stesso per il significato profondo... LAVEZZARI Giuseppe GiulioNato a Vigevano il 12 maggio 1849 milita nei garibaldini nella III Guerra d'Indipendenza ed è presente alla battaglia di Bezzecca dove viene ferito da un colpo di baionetta. Terminata l'avventura militare per la quale era stato decorato, emigra dapprima in Francia dove gestisce un piccolo albergo e poi a Londra dove contrae matrimonio ed ha un figlio. Ormai anziano, ma sempre attivo apprende, a Londra, dove si occupava della vendita di giocattoli, dell'entrata in guerra dell'Italia e parte immediatamente per arruolarsi all'età di 66 anni. Dapprima è accolto con una certa incredulità, poi vista la sua tenacia e i suoi trascorsi (si era presentato all'ufficio reclutamento in camicia rossa e decorazioni guadagnate sul campo) viene arruolato nel 35° fanteria. Impiegato, sempre come volontario, per il rischioso incarico di recidere i reticolati, il 15 luglio 1915 fece parte di un attacco a un fortino nemico sul monte Podgora. Al comando di attacco balzò fuori per primo dalla trincea incitando i compagni a seguirlo e, sbottonando la giubba grigioverde, mostrò al nemico la camicia rossa che indossava sotto. Essendo alla testa della prima ondata d'assalto, il fuoco nemico si concentrò su di lui e cadde, più volte colpito, urlando ai compagni il grido di “avanti Savoia”. Per l'intenso fuoco dell'artiglieria nemica non fu possibile ricuperarne il corpo, per diversi giorni, dalle postazioni italiane, fu visibile la sua camicia rossa. La canzone di LavezzariIl 24 maggio, E andò da Lavezzari, Lavezzari, vecchio fante, Camerata di Bezzecca, E allora Lavezzari si prese la camicia, E il 19 luglio E disse ai volontari E in testa a tutti i fanti E i fanti della Giulia, Ma lui non era pago, Quattro portaferiti, Finalmente con la luna, Egli stava sull'attenti E i morti dell'Isonzo, Garibaldi dié il piedarme, Giulio Camber Barni la buffaIl general Mangino Bim, bum, bom, La fanteria l'è buffa Bim, bum, bom, Non sono bersagliere Bim, bum, bom MYOSOTISA Kolovrat in questo bel giorno di sole i nontiscordardime hanno il color blu degli occhi delle ragazze. Ma nei prati ne vedo alcuni di un vago color rosa e mi domando se si non tratti di una traccia del sangue versato cent'anni fa nella Grande Guerra. --- In Kolovrat on a nice, sunny day forget-me-nots are of the same blue of girls' eyes. I can see some of them being of a tone of rose and I ask myself if it isn't a trace of the blood shed a century ago in the Big War. --- À Kolovrat dans une belle journée ensoleillée les myosotis ont la même couleur bleu des yeux des filles. Mais dans les prés j'en vois quelqu'un qui est d'une couleur rose et je me demande s'il ne s'agit pas d'une trace du sang versé il y a cent ans dans la Grande Guerre. Caporetto/Kobarid 10.5.2014 Antonio G. Della Rocca Qui interviene di nuovo Robert Mitterrutzner col didgeridoo (Mauro Tonino) Il rastrellamentoMarino con aria stanca riprese la narrazione dal punto esatto, dove aveva interrotto. Il gracchiare dell'altoparlante scandiva l'ordine perentorio per tutti gli uomini di “consegnarsi immediatamente ai tedeschi e assembrarsi davanti alla chiesa”, mentre donne e bambini di “rimanere chiusi in casa”. Nazario usci dal cespuglio e si diresse verso la chiesa. Io, d'importante a questo mondo, avevo solo lui, così lo seguii. Davanti alla chiesa erano state già radunate quaranta o cinquanta persone, papà fu messo insieme con loro. Sopra di loro, a ogni finestra della sacrestia c'era un soldato tedesco armato che controllava la piazza. Fui allontanato contro la mia volontà, non volevo abbandonare Nazario, così senza essere notato mi buttai giù nel fosso, proprio dietro la casa di Candusio, pronto a correre verso mio padre qualora fosse stato preso. Io stavo accovacciato nel fosso, con la sola punta del naso fuori, seminascosto tra l'erba, da lì potevo osservare tutta la scena, la distanza che mi separava dall'area teatro dei fatti che ora andrò a narrare, era circa cinquanta metri. In mezzo a tutti quegli uomini lo squadrista dirigeva con piglio autoritario tutte le operazioni. Quell'uomo, ora era stato assurto al ruolo di supremo giudice per dispensare vita o morte a persone che aveva visto nascere, crescere, invecchiare, e delle quali, in un paese piccolo come Villanova, conosceva tutto. Dal fosso, potevo sentire distintamente i colloqui tra le sventurate vittime e i carnefici. Quando mio padre venne scartato, tirai un sospiro di sollievo, ma rimasi accovacciato immobile nel fosso, attento a quanto accadeva. La scelta degli uomini da sacrificare spettò al nostro compaesano, operazione che effettuò con puntiglio e diligenza. Doveva scegliere diciannove martiri, e così fece. Distinzioni di età, di vissuto, di ceto, non valsero a nulla. Il fato, seguendo un misterioso disegno, aveva già scelto, in tal contesto pure un giovane militare appena giunto in licenza a casa, incontrò il destino lontano dal fronte, proprio nella terra che gli aveva dato i natali, e lì, ancora con la divisa addosso, fu raggruppato come un agnello sacrificale, agli altri diciotto martiri. A un certo punto si rivolse verso Elio, uno dei tre fratelli di “Lei”, dicendogli “ Fiozzo mio se in tre, uno dei voi tre devi andar! ” Elio era poco più che ragazzo, e a quella sentenza di morte rispose “: Santolo mi no iero mai partigian! ” Un duro “Rauss!” dell'interprete tedesco spense le tenui speranze del giovane. Lo portarono dietro la chiesa, e lì iniziò la mattanza. Li fucilavano tre per volta. Sentivo un tedesco urlare “ avanti, avanti! ” e poi i colpi. Il mitra tedesco, appoggiato su le assi del portone ormai scardinato e dissestato, vomitava implacabile terrore e morte. Un compaesano, credo fosse Pio, cercò di fuggire in mezzo ai meleti ma loro, freddi e spietati, lo mitragliarono alla schiena, quasi come in una caccia alla lepre. Tutti quegli uomini trovarono la morte lì, su quel prato dietro la chiesa. Anche il nostro vicino di casa cadde insieme agli altri compaesani. Gli angeli della morte, non paghi, poiché nessuno doveva sopravvivere, finirono tutti a uno a uno con un colpo di pistola alla testa. Ricordo ancora l'immagine di quella pistola luccicante tra le mani del tedesco, e al botto di ogni colpo sparato, io sobbalzavo cercando di appiattirmi sempre più nel fosso. Conclusa la mattanza, i soldati salirono sui camion e se ne andarono via. Il quadro era desolante, dal mio nascondiglio immaginavo quegli uomini che fino a pochi attimi prima erano persone vitali, allegre, nel pieno della vita, ora il soffio implacabile e malvagio della morte le aveva portate via per sempre. C'erano solo corpi inanimati, quei poveri compaesani vittime innocenti di quella follia collettiva che assume il nome di guerra, e che io conoscevo uno per uno, con loro ci avevo parlato, scherzato, ora erano lì immobili. Tutto divenne immobile in quella quiete mortale. Solo dopo mezzora, dopo essersi accertate che i soldati non c'erano più, timidamente le donne iniziarono a uscire dalle case. E di lì a poco i pianti e le urla di disperazione saturarono l'ambiente, come lugubri e funerei canti accompagnatori delle anime di quegli sventurati verso ultimo viaggio. Uscirono poi anche gli uomini sopravvissuti, tutti davanti a quei poveri corpi, immobili e silenti a guardare quelle membra martoriate, icone e immagini della morte che li aveva appena lambiti, ma alla fine lasciati in vita a testimoniare lo scempio perpetrato contro civili inermi. L'umana pietas prese il sopravvento, così gli uomini superstiti presero a scavare per dare una minima sepoltura agli amici, parenti, vicini di casa. C'era poca terra, quasi che quel luogo non volesse ricevere il sangue degli innocenti. Dovettero allora ricorrere all'esplosivo di mina per sventrare le rocce e creare un giaciglio nella terra per quei diciannove figli. Ricordo ancora i corpi avvolti in un lenzuolo, ultimo sudario prima di esser sotterrati e un foglio di carta appuntato sopra con il nome inciso. Conclusa quella modesta cerimonia funebre, mio padre mi prese in braccio e mi riportò a casa. Paradossalmente, nonostante la tragicità del momento io ero contento, felice del fatto che mio padre si era salvato, ma alla luce di quello che accadde poi, gli avrei augurato di diventare il ventesimo martire, per non patire le pene dell'inferno in terra, viste le torture e sofferenze perpetrate poi sul suo povero corpo per giorni e giorni dagli implacabili carnefici. (Dallagiacoma) 30 secondi di pausa e mi accompagna il didgeridoo (Diaolin) pöra mòrt…pöra mòrt la töl dré tut le mesèrie la còn törse dré qoei bòni vorìa dirghe: làghei chi povera morte povera morte | si porta dietro tutte le miserie | e ogni carabattola nello zaino | alle volte sembra quasi che ti insegua | mano a mano, come lumaca, trascinandosi | dietro il respiro della gente, casualmente, | povera morte | deve portarsi dietro quelli buoni | come quelli che la canzonano | non ripulisce il campo dall'erba | lei riempie il cesto di anime | e alle volte lascia un vuoto | povera morte | vorrei dirle: lasciali qui | tutti quelli che fanno del male | ché resti loro il desiderio | di finirla, quella storia, | senza che accada mai (Dallagiacoma) (Mauro Tonino) La foiba di VinesCon cautela Luciano s'inoltrò per una ventina di metri tra le sterpaglie fino a fermarsi, si volse lentamente indicando con il braccio teso la foiba. Il sole ormai radente, e prossimo e morire, tagliava come un rasoio le ombre, e impietosamente colpiva direttamente gli occhi di quell'improbabile terzetto. Erano arrivati alla foiba quasi a tempo scaduto, ancora pochi minuti e sarebbe stato impossibile inoltrarsi in quella boscaglia incolta. Nazario li aveva presi per mano e portati proprio lì, a rendergli omaggio in un ultimo saluto liberatore, affinché da quel momento la sua anima potesse librarsi e finalmente raggiungere un luogo sereno. Ora, davanti a loro si stagliava la foiba di Vines, quasi semisconosciuta nelle citazione storiche dei libri di maniera, ma tristemente famosa tra gli esuli. Marino e Filippo si avvicinarono con prudenza ai bordi, rovi e sterpi facevano da cornice fin sul bordo, in mezzo si stagliava la forra. Pareva che quel buco nero, del quale non s'intravvedeva la fine, inghiottisse pure la luce, e la sensazione trasmessa era quella di due enormi fauci, ancora lì ad attendere l'arrivo dei predestinati al sacrificio. La foiba era delimitata con un cavo metallico, che fungeva da simbolico parapetto, mentre in parte, stesa sopra dei rovi, messa lì come un sudario a testimoniare il sacrificio, c'era una bandiera italiana, martoriata anch'essa dalle intemperie, ma ben di più dagli eventi bellici, che la violarono a più riprese. Quel pezzo di stoffa, messo lì da qualche animo pietoso, ma che non vuol dimenticare, fu il simbolo e la croce, sotto la quale, come i martiri, furono immolati tanti uomini e donne, rei di essere solamente italiani. Quel luogo non aveva nulla di umano, e a conferma di quanto la natura stessa riverberava, Luciano con voce bassa e roca parlò "E' molto profonda, dicono più di cento metri". Cadde di nuovo il silenzio, sempre poi rotto dalle parole di Luciano che come un tragico corrispondente di guerra narra i drammatici eventi che i suoi occhi hanno visto e fissato nei ricordi in modo indelebile "Vidi arrivare giù un gruppo, c'erano diciassette sventurati, legati cinque a cinque, che vennero fatti incamminare, verso qui". Luciano interruppe il racconto, tutti e tre gli uomini avevano lo sguardo fisso verso quell'inghiottitoio nero. Passarono alcuni minuti in silenzio, Filippo volse lo sguardo verso il nonno, in quel momento non rivedeva l'uomo vigoroso con la schiena dritta che aveva sempre intravisto, davanti a lui osservava una persona invecchiata, curva, il viso bianco di un candore quasi innaturale, e i muscoli del viso tesi. Luciano riprese a fatica l'illustrazione della tragica testimonianza "Non ebbi il coraggio di venire fin qui in quei giorni" poi, girando il capo e indicando con la mano la casa da dove erano venuti, disse "Da là, ancora dopo diversi giorni, si sentiva provenire dei lamenti dalla foiba". Abbassò lo sguardo, e con un tono di voce greve proseguì la tragica cronaca "L'umana perversione non ha limiti, a quegli uomini torturati nell'animo e nel corpo, veniva fatta balenare l'illusione di avere salva la vita se avessero saltato indenni la foiba, ma per quei pochi che riuscivano a farlo, li aspettava un colpo di fucile alla schiena. Per gli altri invece, legati l'un l'altro col filo di ferro in una tragica catena umana, spettava una sorte ancor peggiore, colpito il primo con un colpo di pistola alla nuca, questi trascinava con sé i vivi nell'orrido. In quei lunghissimi giorni di follia, la foiba non risparmiava nessuno, se essere italiano, era diventato un sicuro titolo per scendere negli inferi attraverso quelle terribili forre, l'angelo nero con la falce colpiva per vendetta anche chi, pur non soggetto alla “pulizia etnica”, aveva in passato avuto a che dire, anche per futili motivi, con qualcuno dei carnefici, generosi dispensatori di morte". Quelle pesanti e tragiche parole imposero il silenzio, poi, dopo aver preso fiato e coraggio, Luciano completò la narrazione "Dopo poco tempo vennero qua con un camion pieno di calce e la versarono dentro". Una folata di vento mosse la vegetazione, quasi a terminare l'orazione funebre, muovendo legger-mente la bandiera, quasi che questa fosse viva. Marino si sporse, Filippo lo osservò, nelle mani del nonno apparve come per incanto il mazzo di garofani bianchi acquistato a Cittanova, ma del quale il ragazzo non si era accorto che fosse stato portato appresso. Marino lanciò con decisione il mazzo di fiori. Il fascio di garofani descrisse in aria un bell'arco, osservato da tutti e tre gli uomini, per poi scendere giù nel mezzo del buco nero. Marino non possedeva la matematica certezza che Nazario riposasse proprio lì, ma quel gesto avrebbe simbolicamente espanso l'ultimo saluto a suo padre in qualunque luogo questi giacesse. Restarono immobili in silenzio per diversi minuti, poi Marino si mosse, sporgendosi leggermente oltre, quasi a voler richiamare lo spirito di suo padre. Poi si raddrizzò, rigido, fermo, in un simbolico saluto. Il tempo pareva essersi fermato, solo il vento muovendo leggermente i capelli dell'anziano, confermava che tutto era vivo. pausa di 1 minuto (Dallagiacoma) Mia breve considerazione su questo evento e poi lascio andare avanti Mauro a raccontare l'epilogo della storia (ma quando finirà questa guerra interiore?) (Mauro Tonino) Ritorno a casaLa barca, nonostante l'ancoraggio disposto da Marino, a dir suo sicuro, iniziò soffrire le raffiche che stavano aumentando d'intensità, tanto che iniziò a muoversi. Sul momento Filippo non diede peso alla cosa, ritenendola un fatto normale, e gli ci volle un po' per capire che il vento stava invece sospingendo la barca verso dei galleggianti, che non erano altro dei bidoni posti lì, contro ogni buon gusto, solo per raccogliere i mitili. Sull'altro lato della barca, con le gambe fuori bordo, Marino era intento in ben altre faccende, concentrato nel cercare di far abboccare un pesce che pareva riottoso a farsi mettere in padella. "Nonno, la barca va alla deriva". "Impossibile!" fu la lapidaria risposta. "Guarda!" ribadì con insistenza Filippo, quasi urlando. La determinazione del ragazzo sortì l'effetto di catturare l'attenzione del comandante. Con solo colpo d'occhio, Marino intuì il pericolo "Porco mondo, le pedocere !!" Con inaspettata agilità risalì e come un fulmine si diresse ai comandi, cercando di accendere il motore. Questa volta, come se un folletto dispettoso ci avesse messo le mani, ostinatamente si rifiutava di ripartire. Ormai la collisione era inevitabile, infatti, Filippo aggrappato a una sartia, attendeva il botto, mentre Marino si accaniva sul motore che non dava alcun segno di vita. Sentì quasi in contemporanea, il botto e il motore che si accendeva e dopo qualche secondo si spegneva con un rumore sordo. Marino riprovò più volte ma il motore pareva defunto. A quel punto il comandante osservò la situazione stimando i danni, e solennemente, ma con anche un po' di vergogna, si pronunciò "Ci siamo impigliati nelle pedocere, l'elica si è avvolta nel cavo che le tiene ancorate al fondo!" e dopo una pausa, profferì, ma con minore enfasi "Che figura di merda, proprio davanti a casa!" "E adesso che facciamo nonno?". "Nulla!" rispose sconfortato Marino. "Come nulla!". "Noi non possiamo fare nulla, dobbiamo chiamare tuo padre, che venga ad aiutarci". "Va bene, dammi il cellulare che lo chiamo io" disse Filippo, già più tranquillo. "Non ho il cellulare con me, l'ho lasciato a casa" rispose sconfortato l'anziano marinaio. "E adesso cosa facciamo?" chiese preoccupato il ragazzo. "Aspettiamo, aspettiamo che passi qualcuno, mica sparo un razzo per far accorrere quelli della Capitaneria di Porto o li chiamo alla radio, così domani ci troveremo dipinti sul Il Piccolo, no no, questo mai, aspettiamo!". Dopo aver esternato il proprio pensiero, Marino si sedette sconfortato nel pozzetto. Filippo lo raggiunse, si sedette vicino "Va bene nonno, aspetteremo". Il vento intanto era salito ancora d'intensità, portando aria fredda, mentre il mare sollecitato dalle raffiche improvvise, stava montando. "Con questo tempo vedrai che tra poco qualche barca rientrerà". "Si nonno, lo penso anch'io" rispose Filippo, replicando al nonno, giusto per tranquillizzare lui, giovane mozzo, l'esperto marinaio. "Nonno, in questi giorni sono stato bene con te". "Anch'io" rispose l'anziano arruffando i capelli al ragazzo. "Grazie di avermi fatto partecipe della tua storia e dei tuoi ricordi" "Era giusto che tu sapessi, pensa … alcune cose non le avevo raccontate neppure a tuo padre". In silenzio, seduti con le gambe fuori bordo, i due compagni di viaggio osservavano la linea tra cielo e terra verso la costa istriana. Dopo una decina di minuti, apparve all'orizzonte una minuscola imbarcazione, che man mano si avvicinava alla costa, confermava che la rotta era sulla linea di stazionamento dei nostri naufraghi. (Dallagiacoma) Pausa di un minuto in silenzio poi continua (Mauro Tonino) Ritorno a casaMarino, con i capelli scompigliati dal vento, tanto da sembrare un istrice, con una mano sul timone e l'altra sulla spalla del nipote, disse "Filippo, prendi tu il timone". "Io nonno?" chiese un po' preoccupato il ragazzo. "Si certo, sei partito per questo viaggio mozzo, ma ora rientri marinaio!". Marino lasciò così i comandi al nipote, poi si diresse verso prua, per aggrapparsi a una sartia e scrutare l'orizzonte. Filippo, attento a manovrare, manteneva in rotta l'imbarcazione senza sbavature, nonostante il mare sempre più increspato. Marino, non aveva sbagliato ad affidare il timone a Filippo, questi seppur in tensione come una corda di violino, sapeva il da farsi, infatti, entrò nel canale del Villaggio con grande sicurezza. Passarono davanti a Mario, che essendo a bordo di una barca a motore più veloce era rientrato prima di loro. "Grazie Mario!" gridò dalla barca Marino, questi rispose "Figurite, spero solo che no te dovessi far lo stesso ti con mi un dì!" poi salutò con il braccio, Marino fece lo stesso, mentre Filippo, nemmeno girò lo sguardo, tanto era attento alle manovre. Con perizia ridusse la velocità nell'approssimarsi dell'approdo. Sulla sponda, proprio di fronte a loro, stazionava invece Daniele, solo e intento ad asciugarsi i capelli con un asciugamano. S'irrigidì nel vedere Filippo alle manovre, non se lo sarebbe aspettato. La preoccupazione svanì presto, visto che Filippo, con una manovra perfetta accostò la barca al pontile. Mentre era lì, ancora immobile, Daniele si sentì apostrofare da Marino, forse per esternare una piccola rivincita e smorzare la sottomissione psicologica per l'infortunio e l'onta appena subita "Cossa te fa come un bacalà, ciapa la cima!". Quasi colto alla sprovvista, Daniele prese la cima e con una gassa d'amante l'assicurò alla bitta. Mentre assicurava anche la seconda cima, Daniele si mise a osservare i due marinai. Ormeggiata l'imbarcazione, iniziarono quindi i lavori di sistemazione, trasbordo a terra delle poche vivande rimaste a bordo, e quant'altro i marinai si erano portati dietro per il viaggio. Daniele si mise a osservare i due. Seppur fossero separati da più di una generazione, notò che c'era qualcosa di strano in loro, qualcosa di nuovo, come se quel viaggio avesse reso più intimo e forte il loro rapporto. Gli pareva quasi che si fossero trasformati, Filippo dava l'impressione di essere maturato, cresciuto, non più un ragazzo, ma un giovane uomo. Osservando bene il padre, considerò che anche Marino fosse diverso, trovava ora il suo sguardo sereno, lo sguardo di un uomo in pace. S'interrogò incuriosito su che cosa fosse accaduto durante quel viaggio, forse non glielo avrebbero detto mai e sarebbe rimasto un segreto tra loro due, o chissà, magari un giorno lo avrebbero fatto partecipe dell'espe-rienza vissuta. Marino si diresse verso la casetta di legno, pochi metri quadri che fungevano da magazzino, dispensa, rifugio nelle brutte giornate, il suo regno, e di fatto prima casa dai giorni della pensione. Ne uscì con due birre e una coca cola, che passò ai due consanguinei. Dopo aver gustato tutta la birra, abbracciò figlio e nipote. Lì, tutti e tre uniti, in pace, ognuno a sentire la vicinanza dell'altro, accompagnati solo dal pigro sciabordio dell'acqua del canale mossa dalla marea montante. Tre generazioni, tre mondi, tre uomini, legati dal sangue e dalla storia, figli del passato, ma saldamente ancorati al presente e proiettati verso il futuro. (Dallagiacoma) (Diaolin) VIFucile Mannlicher - Carcano modello 1891 calibro millimetri 6,5 per 52 Vedi, ho imparato la poesia, e bene, (da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler) Io ho solo paura per me, per te e per le bambine! Vorrei fermarmi un attimo su questo concetto: come mai la frase di prima “Tutti dicono che dura poco, un paio di settimane e poi e poi è finita. E allora tanto vale andare. “ perde il suo potere ipnotico ed assume un valore retorico solo nel momento della percezione del suo intrinseco dramma? Perché non pensare alla guerra come ad una soluzione impossibile invece che, a volte, all'unica strada possibile? (Dallagiacoma) (Robert Mitterrutzner) CERIDWEN'S KESSELIch trank den Saft Ich war ein Stein, der vor Hitze glueht. Ich trank den Saft Und dann war ich der, der selber Steine warf Ich trank den Saft Und jetzt geb ich's dir zurueck, (traduzione) IL CALDERONE DI CERIDWENHo bevuto il succo Ero una pietra, incandescente per il calore. Ho bevuto il succo E poi ero io stesso colui che lanciava pietre Ho bevuto il succo Ed ora te lo darò indietro, La trasformazione Siamo scesi su questo pianeta per imparare, per vivere, per amare, nelle lezioni si rischia di non capire la lezione e c'è bisogno di ripeterla, nel vivere veramente si rischia la vita e nell'amore si rischia tutto, nel stare al momento si rischia di non esserlo. Una magia ti può riuscire e anche no, quando le cose vanno bene, di solito si è contenti, quando invece non vanno bene, ci si riprova, per me delle persone che incontro, mi fanno da specchio, e se sono come uno specchio vuol dire che hanno dentro una cosa con la quale vado in risonanza, perché c'è anche in me quella cosa. Il rifiuto è sempre una cosa che non si vuol vedere, che si vuol mettere all'oscuro e si cerca di nascondere. Per me l'amore è tutto, lo vedo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni attimo, l'amore sta sopra ogni cosa e l'amore lo puoi solo dare e ricevere, è impossibile possederlo. L'amore include tutto ed esclude niente, lo si deve trovare in se stessi, per se stessi e per gli altri. Anche la morte è amore! L'unica libertà che hai, è la libertà di scegliere e quando hai scelto non sei più libero, perche ogni scelta è anche una identificazione, quindi, ti rimane soltanto “VIVERE” con tutti i suoi aspetti. (Dallagiacoma) (Diaolin) XMi hanno detto sette (da I prezzi da pagare di Suchert Daniel di Schuler) Davanti al nemico... Dallagiacoma (ultima volta) (Diaolin) Il nemico: noi stessi! Ripartiamo per Malga Sass, ci fermeremo altre due volte sul sentiero, negli stessi posti di prima. Stavolta non vi chiederò di tacere ma lasciatevi andare a qualsiasi cosa vi venga in mente... C'è il megafono a disposizione di chi vorrà dire qualcosa. Durante la discesa vi chiedo di raccogliere le bandiere ed i pali, le bandiere potete portarle con voi mentre i pali vi chiedo di lasciarli in malga. Ci fermeremo ancora due volte in discesa per ascoltare una lettera a Pasolini ed una mia brevissima poesia. Prima però vorrei ricordare un amico scomparso da poco, una persona che ha fatto della libertà e dell'arte il disegno della sua vita e ha lasciato un vuoto profondo nel mio cuore. Ultimamente mi aveva detto: “Caro Diaolin, gò drìo la porta de casa el tò Saor del vènt così me 'l lézo ogni volta che vago fòra de casa... me piaserìa vegnìr su anca mi ma le gambe... no le obedisse pù”. Beh, lui era venuto diverse volte agli eventi che ho fatto ma stavolta ho deciso che lo avrei portato io con i miei pensieri. Ciao Franco e sìene en paradìss come che 'l vorìsti ti! ‘l saór del vènt…l'às mai sentù ‘l saór del vènt de istà il sapore del vento hai mai sentito il sapore del vento d'estate | quando ti sferza le labbra screpolate | e lascia dentro intriso, nella bocca asciutta | profumi di fiorume appena tagliato? | hai mai dato ascolto al fischio birichino | che porta in grembo campane che suonano | per trovare dentro, carezze al cuore di mamma | pianti di stizza di un bambino arrabbiato? | hai mai sentito il sapore del vento smanioso | che rivolta le nuvole più nere | falèna sulla pella madida che sembra piangere | e le ossa che fanno schiocchi che sembrano scintille? | l'hai mai sentito il sapore del vento autunnale | con il mosto che bolle ancora, castagne sulle braci | sull'uscio di casa con i vecchi che raccontano storie | ed un cane dal pelo ispido che abbaia a chi passa? | ma tu l'hai mai ascoltto il rumore del vento | che corre in mezzo al porticato, in mezzo ai viottoli | quel fischio che ti dice che sei vivo | e tace silenzioso al canto delle cicale? | ma tu, l'hai mai sentito il sapore del vento | assaggiando piano un fiore appoggiato alla lingua | lasciando che i pensieri sbiadiscano | e quel profumo intenso ti faccia volare? | ma tu l'hai mai assaggiato il sapore del vento? Scendiamo... Prima tappa in discesa (Mauro Tonino) Letare a Pieripauli |
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