(Mauro Tonino)
La foiba di Vines
Con cautela Luciano s’inoltrò per una ventina di metri tra le sterpaglie fino a fermarsi, si volse lentamente indicando con il braccio teso la foiba. Il sole ormai radente, e prossimo e morire, tagliava come un rasoio le ombre, e impietosamente colpiva direttamente gli occhi di quell’improbabile terzetto. Erano arrivati alla foiba quasi a tempo scaduto, ancora pochi minuti e sarebbe stato impossibile inoltrarsi in quella boscaglia incolta. Nazario li aveva presi per mano e portati proprio lì, a rendergli omaggio in un ultimo saluto liberatore, affinché da quel momento la sua anima potesse librarsi e finalmente raggiungere un luogo sereno.
Ora, davanti a loro si stagliava la foiba di Vines, quasi semisconosciuta nelle citazione storiche dei libri di maniera, ma tristemente famosa tra gli esuli. Marino e Filippo si avvicinarono con prudenza ai bordi, rovi e sterpi facevano da cornice fin sul bordo, in mezzo si stagliava la forra. Pareva che quel buco nero, del quale non s’intravvedeva la fine, inghiottisse pure la luce, e la sensazione trasmessa era quella di due enormi fauci, ancora lì ad attendere l’arrivo dei predestinati al sacrificio. La foiba era delimitata con un cavo metallico, che fungeva da simbolico parapetto, mentre in parte, stesa sopra dei rovi, messa lì come un sudario a testimoniare il sacrificio, c’era una bandiera italiana, martoriata anch’essa dalle intemperie, ma ben di più dagli eventi bellici, che la violarono a più riprese. Quel pezzo di stoffa, messo lì da qualche animo pietoso, ma che non vuol dimenticare, fu il simbolo e la croce, sotto la quale, come i martiri, furono immolati tanti uomini e donne, rei di essere solamente italiani. Quel luogo non aveva nulla di umano, e a conferma di quanto la natura stessa riverberava, Luciano con voce bassa e roca parlò
“E’ molto profonda, dicono più di cento metri”.
Cadde di nuovo il silenzio, sempre poi rotto dalle parole di Luciano che come un tragico corrispondente di guerra narra i drammatici eventi che i suoi occhi hanno visto e fissato nei ricordi in modo indelebile
“Vidi arrivare giù un gruppo, c’erano diciassette sventurati, legati cinque a cinque, che vennero fatti incamminare, verso qui”.
Luciano interruppe il racconto, tutti e tre gli uomini avevano lo sguardo fisso verso quell’inghiottitoio nero. Passarono alcuni minuti in silenzio, Filippo volse lo sguardo verso il nonno, in quel momento non rivedeva l’uomo vigoroso con la schiena dritta che aveva sempre intravisto, davanti a lui osservava una persona invecchiata, curva, il viso bianco di un candore quasi innaturale, e i muscoli del viso tesi.
Luciano riprese a fatica l’illustrazione della tragica testimonianza
“Non ebbi il coraggio di venire fin qui in quei giorni”
poi, girando il capo e indicando con la mano la casa da dove erano venuti, disse
“Da là, ancora dopo diversi giorni, si sentiva provenire dei lamenti dalla foiba”.
Abbassò lo sguardo, e con un tono di voce greve proseguì la tragica cronaca
“L’umana perversione non ha limiti, a quegli uomini torturati nell’animo e nel corpo, veniva fatta balenare l’illusione di avere salva la vita se avessero saltato indenni la foiba, ma per quei pochi che riuscivano a farlo, li aspettava un colpo di fucile alla schiena. Per gli altri invece, legati l’un l’altro col filo di ferro in una tragica catena umana, spettava una sorte ancor peggiore, colpito il primo con un colpo di pistola alla nuca, questi trascinava con sé i vivi nell’orrido. In quei lunghissimi giorni di follia, la foiba non risparmiava nessuno, se essere italiano, era diventato un sicuro titolo per scendere negli inferi attraverso quelle terribili forre, l’angelo nero con la falce colpiva per vendetta anche chi, pur non soggetto alla “pulizia etnica”, aveva in passato avuto a che dire, anche per futili motivi, con qualcuno dei carnefici, generosi dispensatori di morte”.
Quelle pesanti e tragiche parole imposero il silenzio, poi, dopo aver preso fiato e coraggio, Luciano completò la narrazione
“Dopo poco tempo vennero qua con un camion pieno di calce e la versarono dentro”.
Una folata di vento mosse la vegetazione, quasi a terminare l’orazione funebre, muovendo legger-mente la bandiera, quasi che questa fosse viva. Marino si sporse, Filippo lo osservò, nelle mani del nonno apparve come per incanto il mazzo di garofani bianchi acquistato a Cittanova, ma del quale il ragazzo non si era accorto che fosse stato portato appresso.
Marino lanciò con decisione il mazzo di fiori.
Il fascio di garofani descrisse in aria un bell’arco, osservato da tutti e tre gli uomini, per poi scendere giù nel mezzo del buco nero. Marino non possedeva la matematica certezza che Nazario riposasse proprio lì, ma quel gesto avrebbe simbolicamente espanso l’ultimo saluto a suo padre in qualunque luogo questi giacesse.
Restarono immobili in silenzio per diversi minuti, poi Marino si mosse, sporgendosi leggermente oltre, quasi a voler richiamare lo spirito di suo padre. Poi si raddrizzò, rigido, fermo, in un simbolico saluto.
Il tempo pareva essersi fermato, solo il vento muovendo leggermente i capelli dell’anziano, confermava che tutto era vivo.
pausa di 1 minuto
(Dallagiacoma)
Mia breve considerazione su questo evento e poi lascio andare avanti Mauro a raccontare l’epilogo della storia
(ma quando finirà questa guerra interiore?)
(Mauro Tonino)
Ritorno a casa
La barca, nonostante l’ancoraggio disposto da Marino, a dir suo sicuro, iniziò soffrire le raffiche che stavano aumentando d’intensità, tanto che iniziò a muoversi. Sul momento Filippo non diede peso alla cosa, ritenendola un fatto normale, e gli ci volle un po’ per capire che il vento stava invece sospingendo la barca verso dei galleggianti, che non erano altro dei bidoni posti lì, contro ogni buon gusto, solo per raccogliere i mitili. Sull’altro lato della barca, con le gambe fuori bordo, Marino era intento in ben altre faccende, concentrato nel cercare di far abboccare un pesce che pareva riottoso a farsi mettere in padella.
“Nonno, la barca va alla deriva”.
“Impossibile!” fu la lapidaria risposta.
“Guarda!” ribadì con insistenza Filippo, quasi urlando.
La determinazione del ragazzo sortì l’effetto di catturare l’attenzione del comandante. Con solo colpo d’occhio, Marino intuì il pericolo
“Porco mondo, le pedocere !!”
Con inaspettata agilità risalì e come un fulmine si diresse ai comandi, cercando di accendere il motore. Questa volta, come se un folletto dispettoso ci avesse messo le mani, ostinatamente si rifiutava di ripartire. Ormai la collisione era inevitabile, infatti, Filippo aggrappato a una sartia, attendeva il botto, mentre Marino si accaniva sul motore che non dava alcun segno di vita. Sentì quasi in contemporanea, il botto e il motore che si accendeva e dopo qualche secondo si spegneva con un rumore sordo. Marino riprovò più volte ma il motore pareva defunto. A quel punto il comandante osservò la situazione stimando i danni, e solennemente, ma con anche un po’ di vergogna, si pronunciò
“Ci siamo impigliati nelle pedocere, l’elica si è avvolta nel cavo che le tiene ancorate al fondo!”
e dopo una pausa, profferì, ma con minore enfasi
“Che figura di merda, proprio davanti a casa!”
“E adesso che facciamo nonno?”.
“Nulla!” rispose sconfortato Marino.
“Come nulla!”.
“Noi non possiamo fare nulla, dobbiamo chiamare tuo padre, che venga ad aiutarci”.
“Va bene, dammi il cellulare che lo chiamo io”
disse Filippo, già più tranquillo.
“Non ho il cellulare con me, l’ho lasciato a casa”
rispose sconfortato l’anziano marinaio.
“E adesso cosa facciamo?” chiese preoccupato il ragazzo.
“Aspettiamo, aspettiamo che passi qualcuno, mica sparo un razzo per far accorrere quelli della Capitaneria di Porto o li chiamo alla radio, così domani ci troveremo dipinti sul Il Piccolo, no no, questo mai, aspettiamo!”.
Dopo aver esternato il proprio pensiero, Marino si sedette sconfortato nel pozzetto.
Filippo lo raggiunse, si sedette vicino
“Va bene nonno, aspetteremo”.
Il vento intanto era salito ancora d’intensità, portando aria fredda, mentre il mare sollecitato dalle raffiche improvvise, stava montando.
“Con questo tempo vedrai che tra poco qualche barca rientrerà”.
“Si nonno, lo penso anch’io”
rispose Filippo, replicando al nonno, giusto per tranquillizzare lui, giovane mozzo, l’esperto marinaio.
“Nonno, in questi giorni sono stato bene con te”.
“Anch’io” rispose l’anziano arruffando i capelli al ragazzo.
“Grazie di avermi fatto partecipe della tua storia e dei tuoi ricordi”
“Era giusto che tu sapessi, pensa … alcune cose non le avevo raccontate neppure a tuo padre”.
In silenzio, seduti con le gambe fuori bordo, i due compagni di viaggio osservavano la linea tra cielo e terra verso la costa istriana. Dopo una decina di minuti, apparve all’orizzonte una minuscola imbarcazione, che man mano si avvicinava alla costa, confermava che la rotta era sulla linea di stazionamento dei nostri naufraghi.
(Dallagiacoma)
Pausa di un minuto in silenzio poi continua
Questo/a opera è pubblicata con una Licenza Creative Commons
Da Facebook:
Suchert Daniel Di Schuler
La montagna è una cattedrale.
Una cattedrale gotica, che porta il cielo in terra ed innalza l’uomo ed i suoi pensieri al cielo.
Una via crucis laica,
è quel che ha organizzato Giuliano. Un’operazione tanto necessaria quanto contraria allo spirito dei tempi: nell’età del multi-tasking, dell’intrattenimento continuo, del rifiuto della riflessione mascherato da fuga dalla noia, condividere testi come “nuclei di pensiero” quindi mettere ognuno – tutti nella condizione di dovervi meditare sopra. Ognuno perché di ognuno è la fatica della salita. Tutti perché collettiva, comune (e anche questo quanto è opposto alla ferocia imperante dell’individualismo di massa) è la volontà di portare a termine il cammino. E, come in una via cruscis, c’è anche il sacro. Quello che ci scopriamo dentro: quello che avvertiamo ineffabile, proprio in cima ai monti o in mezzo al mare, al confine tra noi e l’immenso; tra noi e l’eterno. Una passeggiata in montagna e qualche poesia. Un happening e un momento di Resistenza.
Grazie molte, senza le tue lettere sarebbe mancato molto…
W la Pace, W Diaolin
L’anno prossimo ancora presenti
Grazie molte della partecipazione carissimo
Commentare…difficile qui da te, caro amico, lasciare un commento. I tuoi pensieri, le tue poesie mi lasciano, mi regalano delle sensazioni che sono un po’ come i sapori, non riesci a descriverli ma li ricordi a lungo e ti fanno sentire a casa oppure viaggiare con il pensiero.
Spero tanto, un giorno, di poter passeggiare e condividere pensieri insieme.
Un abbraccio.
Mìgola
Grazie amica mia