3. Edith Piaf

3 - 9 gennaio-1.png3 - 9 gennaio-2.png9 gennaio 2015

Mia madre era al banco del bar e mio padre aveva appena finito di preparare i polli da mettere sul girarrosto al pomeriggio.
Era un periodo in cui, l’estate, il sabato e la domenica il girarrosto continuava a girare portando gli effluvi del pollo, ripieno con la pancetta e cosparso di sale dolce e rosolato a fuoco vivace, che riempivano le narici di un sapore di buono indimenticabile.
Stavo suonando la fisarmonica, quella rossa del bisnonno che ho ancora, la mitica Soprani del ’39, quando entrò un signore dai capelli bianchi con l’aria allegra. Oggi lo ricordo felice.
Mi chiese con accento francese: “La sas sonàr Aubade d’oiseaux?”…
Fantastico, era uno dei pezzi che avevo appena provato dalla raccolte di Musette francesi.
Suonai il pezzo e lui mi ascoltò attentamente e poi mi chiese: “Me làsses far su na sonàda  anca a mi, putàt?”.
Guardai mio padre che annuì, io non conoscevo la persona, e consegnai la fisarmonica a questo signore e lui cominciò proprio con “Aubade d’oiseaux”, raccontandomela a modo suo, come l’avrebbe suonata un “sonador” parigino: volando sulla tastiera leggero come una farfalla. E poi ancora valzer e paso doble e tanghi e ancora e ancora finché, e questo lo ricordo bene, suonò quella che scoprii dopo essere: “La Foule”.
Me lo disse lui, “‘l Angiol Spamer” di Montesover [disse poi mio padre]:
“Questa chive c’est La Foule” parlando mezzo in dialetto e mezzo in francese.
Ed aggiunse: “…e ‘l la cantava la Edith Piaf“.
E lui la suonava allo stesso modo della Piaf, come la stesse cantando.
Era ipnotico, “‘l Angiolìn”, con la sua delicatezza nel controllare lo strumento: niente forza sul mantice come facevano i suonatori di una volta, nessuna spinta né colpi di reni, solo le mani che scivolavano delicate sul bottoni della mia “zibòga”. Sembrava quasi avesse paura di fare del male alla mia fisa.
“Mi ài sonà a la radio fransé par quasi zinquanta ani…”
Era una passione di famiglia la sua, credo che ancora oggi ci sia qualche “erede” a montesover che suona la “zibòga”.

Eccola, la mia Edith Piaf, dalle mani di un fisarmonicista che suonava ad orecchio, un “sonador” che non sa quello che sta suonando ma sa di esserne parte e te lo fa capire fino in fondo senza dire nulla, solo lasciando che il suono scorra come una poesia.

E’ stato un amore così, al primo ascolto, senza neppure il bisogno di guardarla negli occhi e dopo qualche tempo sono riuscito a recuperare un po’ di cassette registrate dalla piccola signora.

Quanto l’ho ascoltata, e quanto la ascolto tuttora: l’emozione è sempre la stessa.

Trovo in lei tutto il dolore e la crudezza della vita degli ultimi, disegnati in modo speciale dalla sua voce che pare sia accordata a quei carrettini che una volta animavano i mercati con la loro presenza. E a questo proposito ultimamente ho incontrato un signore, a Carpi, che cambiava le musiche di questo suo carillon da strada inserendo dei rulli  facendoli girare con una manovella. Casualmente ha scelto Domino mentre passavo e mi è venuta in mente lei. E, immediato, si è riaffacciato il ricordo di quella voce così incredibilmente triste quanto sensuale e la mia fisarmonica nelle mani di quel signore, un po’ francese, un po’ italiano e un po’ trentino che me l’aveva presentata come una danza.

Oggi ho scelto Lei perché i due artisti che ci accompagneranno sono come la sua voce, come il colore del suo, diciamo, “camminato” più che “parlato”. Una passeggiata sulle parole quella che scopriamo nelle esecuzioni di Edith Piaf, una ricerca del dire più che del cantare. Se ci si lascia andare sulle parole di uno qualsiasi dei suoi canti non si può fare a meno di ripercorrere i passi che, mano a mano che ci si addentra nell’ascolto, diventano il ritmo portante generato dal suo modo di fare poesia: cantando.

La cosa che credo ti colpisca per prima quando affronti quello scultore di sensazioni che è Edith Piaf è sicuramente quell’intensa vena di melanconia che colora di grigio un po’ tutte le sue interpretazioni. Sembra quasi di sentire un accordeon che suona un valzer musette quando il cielo è triste. Si percepisce una profonda rabbia nel suo modo di cantare e lei lo rende, a volte, ruvido e duro come la roccia pur mantenendo, nel profondo del suo dire, la delicatezza di un passerotto… A questo proposito pare che Piaf sia proprio il termine usato nel linguaggio di strada parigino per definire il passerotto. Édith Giovanna Gassion era il suo vero nome.

Mi piace quest’immagine: un passerotto. Ve lo immaginate sulla Senna? Sembra quasi un dipinto impressionista che racchiude nei baffi di una pennellata quasi casuale tutta la delicatezza di un mondo sconosciuto che sta lì, proprio vicino a te, che ti avvolge ma non si lascia prendere mai.

E gira tutto, intorno, quando la ascolto. Sembra quasi l’asse di un pianeta impazzito che rotea in un universo di umanità: cose belle, cose brutte, un turbinio  di sensazioni ineguagliabili sono il sunto del suo messaggio. Lei è la poetessa della povera gente.

Come le mani de “‘l Angiol Spamer”, queste farfalle lievi che non volevano far male alla mia fisarmonica, la poesia di un suono.

Lei è la voce della strada dove si mischiano persone che non sanno chi gli passa vicino, quella strada dove, in fondo, c’è quello che noi siamo: degli sconosciuti che riescono a dirsi buongiorno ed alle volte sorridere a chi incontrano senza scoprire mai il suo nome.

Questa è una lettera breve ma sono certo che i miei due amici sapranno come usarla al meglio per raccontarsi.

Diaolin

httpv://www.youtube.com/watch?v=qd1cAq5jL5A

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4 risposte a “3. Edith Piaf”

  1. E mi carezza questo tuo racconto denso di memorie e sensazioni, per parlare di una donna, di un’atmosfera, di un tempo, di una musica, e di una vita che è appartenenza profonda, ricreazione nuova, di ciò che si è amato e poi trasfigurato, divenendo ancora un’altra cosa viva e presente. Ho trovato un luogo e uno spazio, una vicinanza nel tuo racconto. Grazie.

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