Prefazione

Un’alba dopo la notte?

La più grande obiezione al Dio delle religioni del Libro è la sofferenza dei bambini. Lo ha sottolineato con rigore poetico Dostoevskij nel suo ultimo romanzo, I fratelli Karamazov, mettendo a confronto le opposte vocazioni spirituali: il pensatore razionale e il mistico. Dal canto suo la teologia ha nascosto per secoli l’obiezione sotto il cappello della libertà umana e infine sotto l’immagine del Dio “paziente”, sofferente con la vittima, di fronte alle aberrazioni dell’olocausto.

Giuliano Natali, Diaolin, uomo che vive con partecipazione e inquietudine il tempo presente, ha il dono della parola poetica: annuncia nella presente raccolta una “parola orrenda”, non addomesticata, specchio del dramma interiore. Poesia e inquietudine si fanno sinonimi, e trovano voce nella lingua più prossima, quel dialetto continuamente riattivato fino a caricarlo di molti registri espressivi.

Intonazioni personali della vita e della ricerca dell’autore sono, non meno dello sguardo sul vero, la dolcezza e il calore, messe in apertura del volume in forma di canzone, omaggio a un amico scomparso, sodale di momenti in musica, altra passione irrinunciabile. Come indica il titolo della raccolta, la forma architettonica mutuata dalla musica si intreccia alla tensione espressiva, la versificazione accoglie le avventure del lessico, la forma poetica è forzata dalle increspature del contenuto esistenziale. Se il dialetto si afferma come lingua poetica fondante, l’italiano riformula i contenuti in immagini non di rado modulate in prospettive originali.

Ritmi e architettura

Toccata, Adagio, Fuga: forme musicali in rapporto reciproco a disegnare una sequenza formale ma anche una articolazione di registri, emotivi e intellettuali. Alla vivezza quasi estemporanea della Toccata si oppone la rigorosa costruzione polifonica della Fuga, e in mezzo cade il momento lirico, cantabile dell’Adagio. Il tutto va pensato, sull’esempio di Bach, come pensiero musicale contrappuntistico, ovvero come dialogo serrato tra più voci. Diaolin parla a questo proposito di “gioco di voci, a volte feroce” della Toccata, fatta per eludere le aspettative di “sequenza logica”. Orizzonte, quest’ultimo, che nella Fuga trova invece inveramento perfino “sospetto”, in quanto rifugio rassicurante per l’uomo ferito. Nel movimento intermedio, l’Adagio, si attua l’!invito “a rallentare, ad aprire gli occhi serenamente e gentilmente”. Ecco altri due tratti della personalità dell’autore.

Nove componimenti si susseguono in Toccata, altrettanti in Fuga, mentre Adagio ne contiene cinque, in una architettura speculare equilibrata. Termini strettamente musicali, assunti dalla sintassi della polifonia, titolano i singoli testi: Tema, Imitazione, Canone, Contrappunto, Divertimento, accanto a Esposizione, Stretti, Chiusa, Finale. Nella parte lirica i titoli sono invece allusivi al clima emotivo: Calmo tiepido, Lento con cura. Crocifissione e Requiem rimandano all’ambito semantico e su questo il discorso verterà necessariamente a breve.

Di grande varietà, e con notevole controllo dei mezzi, si afferma il repertorio metrico nella stesura dialettale, tra tipologie di versificazione e organizzazione in stanze: senza ricorrere alla rima, compaiono i più classici endecasillabi e settenari, con creative trasgressioni che denotano la coscienza moderna, e accanto a questi il doppio settenario della tradizione francese e italiana, il doppio senario, il novenario. Così in Toccata. In Adagio invece trova cittadinanza dominante il ritmo di cantabilità popolaresca dell’ottonario, accanto a liberi versi brevi o a lunghi dodecasillabi. Infine in Fuga si ritrovano un po’ tutti i metri citati ma, mentre in precedenza l’organizzazione dei versi in stanze era costante – quartine, sestine, ottave, con pochi esempi di conduzione libera – nella terza sezione prevalgono i testi indivisi, in un’unica soluzione che può raggiungere i 30 versi.

Materia ed espressione

Pur consapevoli della inseparabilità di momento espressivo e momento della formalizzazione, Toccata Adagio e Fuga richiedono una doppia attenzione, Quale percorso intimo, esistenziale, nutre i contenuti espressi dai testi e genera il linguaggio che li rende sensibilmente apprezzabili e coinvolgenti? Il poeta ci parla fin dai versi di apertura di strada ripida dentro i propri sogni, di caduta della speranza, di sole stanco, di residuo calore negli anni della maturità.

Un tema che riemerge in Imitazione, dove i crucci insistono dal di dentro, quindi in Improvviso, nel sangue delle giovanissime vittime. In alternanza si collocano però testi carichi di bellezza ricordata, sognata, sperata: il profumo della casa dell’infanzia, il dolce valzer che lenisce il dolore, l’ondeggiare del larice, il fluire del torrente e il volo di un falchetto, le stelle, l’apparire di un cucciolo di capriolo. La guerra incombe su tutto, si annuncia come forma della più cruda necessità, annunciando il tramonto di quello sguardo sereno e gentile che l’uomo Giuliano Natali coltiva. Solo di guerra è fatta la guerra, dice già il secondo testo, ed è guerra mossa dal denaro.

In Adagio l’ultima lirica – Requiem finale – è compianto sulla cecità della storia, che si ripete con crudeltà. Ma nei movimenti precedenti la sezione centrale apre a scene bivalenti, sospese tra abbandono lirico e immagini sinistre, che riportano in forti simboli al dramma: la croce del povero cristo, la mosca prigioniera, il dio “pigro e assente”, la pelle delle anime vinte.

Fuga si anima della meraviglia dell’acqua, il cui profumo appare salvifico al pari del cinguettio del ciuffolotto: sono “carezze d’amore” cui la poesia di Giuliano Natali è sensibile, barlumi vivificanti la “notte di angoscia” e le “crude speranze”. Potrà essere testimonianza di umanità perfino un “grido ai bordi di un fosso”, di fronte allo svanire del profumo dell’acqua. Ora la valigia dei sogni di ragazzo non ha più credito, se scorrono le immagini spietate della guerra e “un odore di cenere profuma di niente”. Al gioco infantile succede l’immagine dura del bambino mutilato, in una inesorabile discesa nella “notte buia”.

Non tace però il canto del torrente, quell’Avisio che scava in profondità la valle, così che i quattro testi conclusivi appaiono già nei titoli quattro possibili prospettive, sguardi mai definitivi. Chiusa lenta, Finale breve, Finale d’amore, Stretta, ciascuno prefigura un orizzonte: il dramma quotidiano cui nessuno più presta ascolto, la civetta che intona il Requiem sullo sfacelo dell’umanità, il brusio dell’acqua che si fa intonazione poetica forte come “un urlo forse d’amore”, la madre che piange il figlio caduto mentre la storia si ripete come la vita di un formicaio.

Nel poema ogni vibrazione passa attraverso il valore espressivo del dialetto, mezzo duttile nella mente e nella penna dell’autore, corpo della sua anima creativa: ma non per questo le versioni in lingua italiana si limitano allo status di sola traduzione, si pongono piuttosto come creazioni dotate di autonomia linguistica e formale, libere dagli schemi metrici maggiormente riconoscibili nella veste dialettale. Se la notte è il tempo simbolico in cui la capacità di bene sente il peso schiacciante di una storia violenta e distruttiva, anche la poesia si ritrova “senza speranza”? In questo “senza” sta il dato doloroso del testo, ma non è parola definitiva: nella vita della parola che nasce ogni volta si riattiva ogni volta la polarità tra abbandono alla meraviglia del mondo vivente, in cui “sentirsi parte”, e la pulsione autodistruttiva dell’umanità, corrotta dall’avere.

Giuseppe Calliari

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