(Lina Morselli)
BAINSIZZA
Caporetto oggi si chiama Kobarid, è in Slovenia, per gli italiani è ancora sinonimo di disfatta, gli sloveni ne parlano come di un miracolo.
La cittadina di Kobarid è ordinata, pulita, un misto architettonico fra tradizione strettamente autoctona e prolungamento dell’Austria, nelle forme, nei colori, negli ammiccamenti a un passato tanto recente quanto remoto.
Il Museo della Guerra è molto bello, sia per la sua ubicazione in un’antica casa riadattata con rispetto e cura, sia per la passione con la quale è stato allestito e viene tutt’ora condotto. Nel museo di Kobarid si entra quasi con baldanza, con la giusta curiosità storico-turistica che prevede una guida in mano con un dito fermo a fare da segnalibro per la meta successiva, nella convinzione che la visita durerà quanto basta per consentire altre scoperte, prima della sera. Ma ben presto il passo rallenta, la voce cala d’intensità, fino a raggiungere il silenzio, e tra i visitatori, pochi o tanti che siano, l’emozione si taglia col coltello. Nelle grandi stanze è esposto tutto ciò che la Grande Guerra ha significato, nell’orrore della distruzione come nelle tecniche belliche che poi verranno perfezionate nel corso della storia, fino ai nostri giorni: equipaggiamenti, armi, gas, abiti, ospedali da campo, dotazioni varie … E foto, moltissime fotografie, straordinarie; allora i fotografi erano i benvenuti fra i soldati, come i giornalisti, e non tutti venivano manipolati da una propaganda che presentava la guerra come “bella, eroica, vitale”. Qui ci sono anche fotografie che rendono omaggio solo al vero, che non camuffano il reale, nemmeno quando ritraggono gruppi di uomini insieme, col bicchiere alzato, neppure quando mostrano i nemici. Già, i nemici: qui scompaiono, la testimonianza museale è un abbraccio che non si ferma davanti a bandiere o mostrine, qui la guerra è di tutti e per tutti e finalmente ci si sente uguali, nell’impotente vergogna di quella violenza insensata, che nessuno ha avuto la forza di evitare. Più di una volta torno sui miei passi, a rileggere le didascalie accanto ad oggetti e fotografie, e sono queste ultime che mi affascinano di più, prime fra tutte quelle che mostrano resti di paesi, di strade, occupate solo da truppe, perché i civili erano sfollati altrove. Sopra una casa c’è l’insegna “Kavarna” e sotto il cartello “Caffè” e realizzo: qui gli invasori erano gli italiani.
Allora riguardo tutti i soldati ritratti, nella speranza di riconoscere mio nonno, Fermo Giuseppe Ongari, partito nel 1916, a 23 anni, e arrivato fin da queste parti, fino all’Altopiano della Bainsizza, alla cui estremità c’è Kobarid. Mio nonno non compare nelle foto, ma io me lo rivedo: un giovanotto con due mani sproporzionate al resto del corpo agile ma piccolo, perché non può essere grande e grosso chi ha cominciato a lavorare in campagna a 7 anni. Fermo Giuseppe aveva anche i baffi, scuri come i capelli e gli occhi, e cantava da tenore con una voce bellissima. Il canto e la musica erano la sua passione, ma questo non gli ha impedito di diventare un bravissimo agricoltore, specializzato in ortaggi. Da suo padre, di cui parlava pochissimo, aveva imparato a governare le bestie, a coltivare meloni, a preparare il terreno giusto per asparagi e fragole. A Fermo Giuseppe piaceva lavorare la terra, anche se qualche volta gli ho sentito dire che sarebbe stato meglio andare a scuola, ma lui era stato fortunato perché aveva fatto fino alla seconda elementare e sapeva leggere e scrivere. Neppure di sua madre parlava molto. Una volta sola mi aveva detto che ricordava forse l’unica raccomandazione che madre e padre gli facevano in continuazione: mai fare del male, a nessuno, per nessun motivo, non fare del male agli altri.
Con quelle parole nelle orecchie, Fermo Giuseppe bambino teneva la cavezza delle bestie che tiravano l’aratro mentre il resto del mondo ancora dormiva. Con quelle parole, “non fare del male”, Fermo Giuseppe andava col fratello al coro della domenica in chiesa, lui a cantare e il fratello a suonare il violino, un fratello amatissimo, e geniale: sordastro, analfabeta, suonava il violino magistralmente, in paese c’era chi sosteneva che dovesse andare al conservatorio, ma avrebbe dovuto almeno prendere la licenza elementare. Fermo Giuseppe l’ha accompagnato anche l’ultima volta, al cimitero, per colpa della tubercolosi, e ha conservato il violino per tutta la vita, pur perdendo l’archetto in chissà quale trasloco.
“Non far male a nessuno” risuonava sempre dentro di lui, mentre diserbava, concimava, mungeva, si faceva crescere i calli nelle mani e gli si ingrossavano le unghie, mentre con gli altri fratelli più grandi metteva via centesimo su centesimo per comprarsi un po’ di vacche da latte, poche all’inizio, ma se tutto fosse andato bene si poteva riempire la stalla e poi comprare anche un po’ di terra, e salutare il padrone e alzare la testa.
“Non far male a nessuno, mai”, risuonava nelle orecchie di Fermo Giuseppe mentre il treno lo portava oltre il Piave, strizzato in una divisa che gli legava i movimenti e con la quale addosso non sarebbe stato possibile neanche segare l’erba medica col ferro. Non so dove sia stata la sua prima destinazione, ma di certo ben presto è arrivato in trincea, in prima linea, un fantaccino come tanti, che parlava solo dialetto, carne da cannone.
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(Dallagiacoma)
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A noi nipoti giovani e teneri, che lo ascoltavamo durante i pranzi nella grande cucina disturbata solo dal ronzio di uno dei primi frigoriferi del boom economico, anni dopo, raccontava che era brutto stare in trincea, usava solo queste semplici parole, e solo ora mi rendo conto della loro forza tragica. Forse perché solo oggi ci sono stata dentro a una trincea, proprio a Kobarid, dove una lunga trincea dell’esercito italiano è stata perfettamente ricostruita e la si può precorrere, anche nelle tante e lunghe diramazioni che partono dal tracciato principale. Prima dell’ingresso nella trincea di quella che per noi resta Caporetto, un coro sloveno aveva cantato alcuni canti di guerra, con l’accompagnamento di una chitarra e di una fisarmonica. A mio nonno sarebbero piaciute quelle voci limpide, quelle parole difficili e lontane che nessuno di noi ha sentito il bisogno di tradurre, perché era chiarissimo cosa stavano dicendo, tutti noi abbiamo capito che si parlava di madri, di fratelli, di spose e fidanzate, dei profumi delle proprie terre.
Risentivo la voce di mio nonno Fermo Giuseppe, che vangando nell’orto di casa mia, già anziano ma ancora pieno di vigore, canticchiava spesso una canzonetta breve ma intensa, di quelle che nessun coro degli alpini metterà mai in repertorio
“Il general Cadorna
ha scritto alla regina:
se vuoi veder Trieste
la vedi in cartolina
Bim Bum Bom,
la Nina a cul buson”.
(ndr. magistralmente cantata da Lina)
E poi via, dentro alla trincea, con mio nonno dietro, e le sue parole di sempre “Non fare mai male a nessuno”.
La trincea è il luogo per eccellenza in cui organizzare una mattanza: stretta, profonda, soffocata, impone il camminamento, impossibile la corsa, scura, persino le feritoie non servono a filtrare la luce. Adesso attraverso quelle fessure lunghe e strette si intravede la montagna verde, qualche foglia si intrufola dentro. La natura è sempre stata lì, a scandire le stagioni, a cambiare la faccia al cielo, alla terra, a segnare cocciutamente un tempo che agli uomini, in trincea, era vietato. Fermo Giuseppe alzava gli occhi, aguzzava la vista, e vedeva pezzi di azzurro e di verde, terre fertili e gentili ridotte a poltiglia, casolari sparsi con stalle vuote, e lui, al posto della vanga, stringeva un fucile. Mi aveva raccontato che lui lo teneva stretto sì, il fucile, ma non era né bravo né svelto a caricarlo.
Ho fatto tre assalti, sai, per tre volte sono uscito dalla trincea, ma io sparavo a caso, sparavo in aria.
Ma nonno, non si può! Se tutti avessero fatto così, gli austriaci vi avrebbero ammazzati tutti.
Lo so, ma io non riuscivo a pensare di uccidere qualcuno, non volevo, non ce la facevo. Come potevo uccidere uno che neanche conoscevo? Cosa mi aveva fatto a me? Mia madre mi diceva sempre di non fare mai male a nessuno, e io non riuscivo a mirare agli uomini.
Lì, dentro la trincea, pagherei una cifra per sapere chi era l’ufficiale che dava ordini a mio nonno, e vorrei stringergli la mano, offrirgli un caffè e parlare con quell’uomo che ha capito il dramma, che non ha applicato la legge marziale per il fante Fermo Giuseppe Ongari. Forse veniva dalle stesse campagne, forse era un socialista non interventista, forse più semplicemente un uomo che cercava disperatamente di restare tale. Oggi diremmo che riusciva a non perdere la tenerezza. Pagherei una cifra, mentre un po’ di sole filtra tra le feritoie, per sapere quale dialogo c’era stato fra i due, in quale pezzo di trincea si era deciso il destino di mio nonno.
L’ufficiale lo aveva ripreso, duramente, certo, ma gli aveva offerto un’alternativa, che avrebbe accontentato anche il comando, se avesse saputo, rischiosa quanto basta, ma forse l’unica possibile: lo spediva nelle retrovie, a fare da becchino ai morti di spagnola. O i morti li seppelliva, o li faceva sparando. Fermo Giuseppe ha preferito seppellirli, rischiando di ammalarsi e di morire di febbre, ha caricato carretti di poveri giovani ridotti pelle e ossa e li ha rivoltati in fosse comuni, conservando le piastrine di ognuno di loro. Il giovane Fermo Giuseppe era forte, e forse fortunato, e la spagnola non l’ha presa, ma con la morte ci ha parlato a lungo, l’ha conosciuta così da vicino da sentire famigliarità con i suoi volti. Brutta la morte, anche quella per spagnola, ma neppure quella volta è venuta meno la profonda bontà di Fermo Giuseppe, che raccontava: “Quello era un lavoro che andava fatto, qualcuno doveva pur farlo, ed era toccato a me”.
Il mio percorso nella trincea di Caporetto continua, è lungo, più lungo del previsto. Ad un certo punto si perdono le coordinate, la terra sotto i piedi comincia a dirti qualcosa, come i muri che sfiorano le spalle: se ascolti bene e se guardi con gli occhi socchiusi, sotto le scarpe si attacca il fango, dai muri comincia a gocciolare umidità, e arriva anche un odore che non sai decifrare subito, ma che associ al marcio, all’urina, all’acidulo di materiale organico in decomposizione. Mi accorgo di essere stanca di camminare lì in mezzo, voglio uscire, voglio che il cielo si apra, quella striscia di azzurro sopra di me la sento come un tappo e mi sale il magone, temo di non riuscire a controllarlo, le note lunghe di quei canti disperati, sentiti prima di questo percorso, mi risuonano nelle orecchie, sono il linguaggio universale del dolore, che a tutte le latitudini e in tutti i tempi si esprime con un lamento e ti pervade l’anima.
Cammino in mezzo alla disperazione, ed è peggio che vederla in fotografia, peggio che immaginarla tra le mazze ferrate ancora scure di sangue che ho visto nel museo. L’unica consolazione è la presenza di altri, seppur distanziati davanti e dietro di me, dei quali sento i passi, ma non le voci, perché anche qui, dopo i primi minuti, tutti hanno smesso di parlare, e il nostro silenzio è rotto solo dal respiro affannoso di qualcuno che comincia ad avvertire più di altri la fatica di quelle salite brevi ma ripide, che ti colgono all’improvviso, e che non puoi aggirare.
Doveva essere così anche per quella povera gente mandata al massacro, per mesi, per anni. Doveva essere così anche per mio nonno Fermo Giuseppe, richiamato dalle retrovie, perché la mattanza stava funzionando alla grande, la gente moriva in prima linea, e i morti andavano rimpiazzati dai vivi, per farne altri morti. Ed eccolo, Fermo Giuseppe, spedito sulla Bainsizza, magari proprio nella trincea che sto percorrendo io, imprigionato in una terra ostile, lui, che con la terra invece era abituato a parlarci, che la conosceva e la trattava come una persona, lui, che di terra aveva vissuto e voleva continuare a vivere, lui, che la terra l’amava. Me lo vedo, appoggiato a un fucile, a guardarsi intorno smarrito, a rischiare la salute mentale.
Mio nonno Fermo Giuseppe non ha mai parlato degli altri, nessuno di noi nipoti ricorda la citazione di nomi e cognomi, il racconto di amicizie di guerra. C’erano diversi dialetti da superare, e non c’era per tutti l’italiano ad unificare i pensieri. Mi sforzo di ricordare, mentre mi arrampico su una ripida scaletta di pochi gradini molto alti, scavati nella terra e tenuti compatti da assi di legno, e mi sovviene un’altra scarna ed essenziale informazione: mio nonno aveva condiviso una parte di vita di trincea con dei sardi, che lui chiamava “sardagnoli”. Gli erano rimasti impressi perché bevevano più degli altri e stava partendo a raccontare di acquavite e qualche altro liquore, forse cognac, che si beveva là, dentro l’inferno, ma lui non si era mai ubriacato, non gli piaceva tanto quella roba di cui invece molti si riempivano. Mia nonna quella volta gli aveva impedito di andare avanti, con una delle sue occhiate taglienti, e l’ubbidiente marito si era davvero fermato. Allora ero troppo piccola, non capivo, andavo a scuola, sì, ero già più acculturata di loro, ma ben lontana dalla loro saggezza e dal loro buon senso: quella vita non si poteva raccontare a una bambina di otto anni, meglio aspettare, o forse, meglio dimenticare.
Anche il prezioso e perfetto restauro della trincea di Kobarid ha una fine e il ritorno in superficie, all’aria aperta, è un sollievo per tutti. Il bosco intorno ha ripreso vigore, il sole scalda la pelle, in fondo si vede la vallata con case e strade, ma per tutti, me compresa, il panorama è come una tela dipinta, sotto la quale, grattando solo un po’, emerge un altro disegno. Lo stesso disegno a due colori che deve aver visto mio nonno Fermo Giuseppe il giorno in cui ha deciso di non starci più, di non poterne più, di non voler più obbedire agli ordini, che lui di guerra non ne volevo più vedere e fare. All’ordine di scagliarsi all’attacco lui ha pure risposto, è uscito sì, di corsa, con un balzo, dalla trincea, di certo col fucile in mano e l’elmo in testa, ma la corsa, quella volta, l’ha diretta lui, verso la sua meta: un grosso albero frondoso, di sicuro adocchiato da giorni da una delle feritoie. Qualcuno l’ha visto arrampicarsi come un gatto fin quasi alla cima dell’albero? Qualcuno sapeva del suo folle progetto? Un ufficiale si è girato ancora dall’altra parte fingendo di non vederlo? Non lo so. Mi piace pensare che l’albero fosse un platano, perché di platani era pieno il pezzo di pianura in cui era nato Fermo Giuseppe, un po’ dovunque i platani segnavano i corsi d’acqua, le strade, o davano ombra alle corti sparse nelle campagne. I platani avevano assistito alla sua vita scandita dalle stagioni, mille volte aveva accarezzato il loro tronco liscio e possente alla fine di un’aratura o di una semina, e mi pare giusto pensare che ad un platano si debba la salvezza della sua vita. Tre giorni Fermo Giuseppe è rimasto tra le fronde del platano, tre giorni e tre notti, senza mettere un piede a terra, senza sporgersi oltre il fitto del fogliame, mentre assalti e silenzi si susseguivano, ma la trincea restava sempre lì, troppo vicina per provare a scendere e correre, l’avrebbero visto, e sarebbe stata davvero la fine. Meglio stare lì, meglio morire di fame e di sete che tornare là dentro, che sentirsi stordire da chissà quale alcool, meglio restare coperto dalle foglie, aspettare la neve, sentirsi gelare, finire come gli uccelli in inverno, meglio così, meglio “non fare mai male a nessuno”. Se è vero che la guerra rende possibili comportamenti impensabili in tempi di pace, è altrettanto vero che lì, quella volta, sulla Bainsizza stravolta, mio nonno Fermo Giuseppe ha scoperto di possedere una lucidità e una cocciutaggine insospettabili, credo che lui stesso, dopo, durante la sua vita, ne sia stato meravigliato e più volte si sia domandato come fosse stato possibile, da parte sua, un simile atto. La più dura dev’essere stata la fame, sul platano non c’erano frutti e lui non aveva scorte di viveri con sé. Una sola volta, dopo anni, ha raccontato che frugando in tasca aveva scoperto di possedere alcuni chicchi di pepe, chissà come finiti nella sua giubba. In quei tre giorni centellinava granelli di pepe, e tale era la sua convinzione che quello fosse comunque un cibo, che riusciva a farselo bastare, gli sembrava che dopo aver rotto tra i denti una pallina di pepe davvero lo stomaco lavorasse e un po’ di energia restasse dentro di lui. Intanto la storia andava avanti e gli assalti si susseguivano. Fermo Giuseppe non lo sapeva certo, ma dall’altra trincea sparavano austriaci e prussiani, arrivati a dare man forte nella conquista di quell’altipiano decisivo. Ed eccoli spuntare i tedeschi, i prussiani, fino al suo platano, né angeli né fantasmi, né nemici né compatrioti: uomini, in divisa, ma uomini, quelli che lui non voleva uccidere, quelli su cui lui non voleva mirare. E Fermo Giuseppe, è sceso dal platano, con le mani alzate, verso un altro destino incerto. Nessuno dei terribili nemici armò il fucile, nessuno lo picchiò in testa col calcio dell’arma, forse qualche spinta, di certo una rapida perquisizione, alcune frasi col tono di un ordine in quella lingua dura, ma sì, era andata: basta guerra, era prigioniero. Scendo per il breve pendio che riporta me e il mio gruppo verso l’imboccatura della vallata, attraverso una radura verdissima, con migliaia di piccoli fiori fucsia. Il grande prato è ben curato, qualcuno qui, in questa fetta di Slovenia che prima era italiana, sa che i tagli periodici devono comunque consentire alla flora spontanea di crescere e moltiplicarsi. E’ quasi tangibile il rispetto per la natura e la storia, l’equilibrio che deve permettere ad entrambe di sostenersi a vicenda. Credo che questo sia lo spirito che ha portato alla conservazione e alla ricostruzione fedele della trincea di Caporetto, alla bellezza composta del Museo della Grande Guerra, alla civiltà con cui tutto viene offerto al visitatore, chiunque lui sia. Non c’è il compiacimento dei vincitori, né si sente il peso della sconfitta dei vinti. Dovunque, qui, echeggia il pensiero che ha guidato mio nonno Fermo Giuseppe a salvarsi la vita: “Non fare male a nessuno, mai”. Io credo che Fermo Giuseppe abbia vissuto la sua esperienza straordinaria senza rendersi conto del peso della sua scelta: lui, semplicemente, non ne poteva più, quello sforzo era superiore a quelli che aveva sempre fatto, quella fatica non riusciva a reggerla, non per paura, né per codardia, ma perché davvero dentro di lui non era capace di viverla. Io, bambina, mi chiedevo cosa sarebbe successo se tutti, proprio tutti avessero fatto come lui e oggi la risposta è molto chiara: la guerra sarebbe finita, anzi, non sarebbe neppure cominciata. Utopia, certo, ma anche la più folle delle fantasie può soffiare una scheggia della sua forza in qualche lobo cerebrale, e lì può crescere, o restare a guardare. Mio nonno Fermo Giuseppe quella follia se l’è tenuta dentro da quando aveva sette anni, e ciondolava di sonno in mezzo ai campi, in compagnia del cavallo da tiro, mentre ancora era notte: “Non fare male a nessuno, mai”, e l’ha portata con sé per tutta la vita, la frase il seme e lui il buon terreno per farlo germogliare. Nessuno è morto per mano sua, mio nonno Fermo Giuseppe, contadino ignorante, fantaccino fatto e finito per morire in guerra, ha usato la sua profonda bontà per opporsi a quel mostro, ha alzato le mani per arrendersi alla vita e per beffare la morte. Mio nonno Fermo Giuseppe, nato il 16 maggio 1894 e morto per broncopolmonite il 19 dicembre del 1972, lui, soldato semplice, ha vinto la Prima Guerra Mondiale, su un platano frondoso, mangiando pepe, sull’altipiano della Bainsizza.
Qualcuno l’ha visto arrampicarsi come un gatto fin quasi alla cima dell’albero?
(Dallagiacoma)
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Da Facebook:
Suchert Daniel Di Schuler
La montagna è una cattedrale.
Una cattedrale gotica, che porta il cielo in terra ed innalza l’uomo ed i suoi pensieri al cielo.
Una via crucis laica,
è quel che ha organizzato Giuliano. Un’operazione tanto necessaria quanto contraria allo spirito dei tempi: nell’età del multi-tasking, dell’intrattenimento continuo, del rifiuto della riflessione mascherato da fuga dalla noia, condividere testi come “nuclei di pensiero” quindi mettere ognuno – tutti nella condizione di dovervi meditare sopra. Ognuno perché di ognuno è la fatica della salita. Tutti perché collettiva, comune (e anche questo quanto è opposto alla ferocia imperante dell’individualismo di massa) è la volontà di portare a termine il cammino. E, come in una via cruscis, c’è anche il sacro. Quello che ci scopriamo dentro: quello che avvertiamo ineffabile, proprio in cima ai monti o in mezzo al mare, al confine tra noi e l’immenso; tra noi e l’eterno. Una passeggiata in montagna e qualche poesia. Un happening e un momento di Resistenza.
Grazie molte, senza le tue lettere sarebbe mancato molto…
W la Pace, W Diaolin
L’anno prossimo ancora presenti
Grazie molte della partecipazione carissimo
Commentare…difficile qui da te, caro amico, lasciare un commento. I tuoi pensieri, le tue poesie mi lasciano, mi regalano delle sensazioni che sono un po’ come i sapori, non riesci a descriverli ma li ricordi a lungo e ti fanno sentire a casa oppure viaggiare con il pensiero.
Spero tanto, un giorno, di poter passeggiare e condividere pensieri insieme.
Un abbraccio.
Mìgola
Grazie amica mia